storie di Sebastiano

1° capitolo : la morte, un'amica e una bambina


Sembrava proprio che dormisse. O almeno così dicevano intorno le persone ronzanti al suo letto da morta. Ma a me non pareva proprio fosse tranquilla e felice, ormai lontana dai dolori della sua lenta agonia. Mi sembrava piuttosto che l'ultimo dolore, il più atroce, quello della vita che ti abbandona, le fosse rimasto impresso sul viso come una smorfia, con un ultimo sorriso amaro di chi non voleva proprio che finisse in questo maledetto modo.Ed invece era proprio andata così.Una sorda vendetta del cielo verso chi non avrebbe mai piegato la sua intelligenza ad una così stupida superstizione. Verso di lei che aveva maledetto quel cielo mille volte nella sua vita perché non lo aveva mai trovato pronto a sostenere quello che lei amava. O meglio quelli che amava. Cioè banalmente e semplicemente la gente. Gli ultimi forse, ma neanche così decisamente gli ultimi. Amava le persone e la loro vita, i loro guai, i dispiaceri e gli amori. Talmente tanto da condividerli, da condividere la loro vita. Ecco, Camilla, amava la gente perché amava la vita, amava la musica e la montagna, amava il lavoro e la giustizia, amava l'arte e la cucina. Amava anche bere, in compagnia, con gli amici. La vita insomma. Ed invece qualcosa dentro di lei la stava marcendo fino a farla incontrare con uno stupido tumore, uno di quelli talmente idioti da non capire la felicità di vivere, uno di quelli talmente ostinati che non si piega neanche davanti alla ragione. Un male determinato a portarla fino alla fine. Fino a quel letto da morta con quello stupido sorriso amaro che quasi le deturpava la faccia, non lasciando trapelare più la dolcezza che poteva trasmettere un suo sguardo, fino a tutta quella gente che cerca di rubarti la tua vita per raccontarti agli altri, per sentirsi loro al centro di questa morte, padroni del destino come sanno esserlo solo i vivi, idioti della vita come sanno esserlo solo i presuntosi, orgogliosi di esistere oltre quel suo sorriso così lontano da loro.Quanto siano insopportabili i vivi di fronte alla morte non me ne ero mai accorto fino a quando non li ho sentiti parlare della vita. Non la propria, ovviamente, ma questa, questa che se ne era andata da Camilla, ma che quando la attraversava era talmente splendida che non si poteva che viverla. Altro che raccontarla!Uscire da quella stanza, da quei discorsi, da quella coltre di ipocrita compassione lo stavo sentendo proprio come un obbligo. L’obbligo di andare.“…non la saluti?...”“Chi?”, avevo risposto come ad uno schiaffo, “In questa stanza non c’è più nessuno…”Appena fuori gli occhi di lui mi avevano attraversato fin dentro l’anima per cercare forse una risposta. Qualcosa che rispondesse a qualcuno dei suoi mille perché senza risposta. Ma non avevo dei facili perché, non avevo nelle mie tasche nessuna verità e nei miei occhi qualche parola che consolasse. Sentivo dentro di me un torrente di frasi che premevano e volevano uscire come una cascata, ma nessuna di queste mi sembra diversa da un banale luogo comune adatto alla circostanza. Così nel silenzio, solo un abbraccio era stato il saluto che ero riuscito a regalargli. Ma cosa mai si può dire ad un uomo che perde la compagna di una intera vita in questo modo barbaramente ottuso, senza pestare ogni sua sensibilità?Ma nei suoi occhi lucidi era come se il film del suo dolore stesse scorrendo a ritroso come in mille flashback. A tutte le volte che aveva passeggiato con lei mano nella mano come due adolescenti ormai attempati, ma con l’accortezza di adeguare il suo passo a quello stanco e malato di lei, così faticoso da fare, così da sentirlo come fosse un traguardo di una vita intera. A tutte le volte che ne aveva asciugato il sudore quasi a volerle portare via il dolore, per poi lavarla, vestirla e darle quel poco di pastina in brodo che avrebbe senz’altro rigettato dopo poco. Maledetta kemio. Maledetta per tutte le volte che ti fa morire senza spegnerti. Maledetta per tutte le volte che la benedici per averti regalato qualche giorno in più.Ed alla fine ero fuori, ero finalmente fuori da quella casa. La vita stava già continuando calpestando il respiro appena spento di Camilla. La mia stessa vita mi sembrava che fosse diventata d’ingombro. Che diritto si ha di sopravvivere? Che merito si ha non avere avuto un cancro dentro di te? Domande senza risposte né ovvie né scontate, ma domande che non hanno neanche senso di fronte a quello che significa una morte.Ma qualche passo dopo, soltanto qualche passo dopo ero già senza risposte ma soprattutto senza domande. E mi raccontavo anch’io quello che avrebbe potuto dirmi Camilla.“…sai quanti bambini africani, quanti afgani o iracheni sono morti insieme con me oggi? Sai quanti ne moriranno domani e domani ancora senza che a nessuno di noi veramente dispiaccia? Quanta fortuna abbiamo…quanta ne ho avuta io ad avere un semplice tumore curato male che mi ha dato soltanto un paio di anni di dolore…non ho avuto fame, sete, colera, aids…non sono saltata su una mina antiuomo costruita a Brescia con le tasse degli italiani, non sono rimasta storpia, non sfregiata dall’acido di un marito collerico…non sono stata stuprata, bombardata, deportata, non ho visto i miei amici fatti a pezzi, torturati da qualche polizia neanche così segreta…”. Questo ed altro mi avrebbe detto, come un fiume in piena con tutta la rabbia e l’amore che riversava nella sua angoscia laica della disperazione altrui, con tutto il rancore verso l’ipocrisia bacchettona che risolve sempre e soltanto il dolore con un pater ave gloria. Ed aveva ragione, avrebbe ragione, aveva sempre ragione. Ecco, forse quello era proprio il modo per raccontarmela, viva, incazzata, forte, capace di prendere e dare botte come un maschio, più di un maschio. E mi veniva da sorridere, proprio insieme a lei, proprio con il suo sguardo dolce nei miei occhi, come se le parlassi.“…ma quante palle di fascisti hai scalciato? Tu, proprio tu che hai la maglietta di Emergency e la bandiera della pace sulla tua bara? Non te lo ricordi più?”“Se me lo ricordo!! Sempre troppo poche però!!”E mi era sembrato quasi di sentirne le risa che scrivevano i punti esclamativi.Ma non ci si imbroglia a lungo. Dentro l’avrei portata per sempre viva, così come era, così come sarà per sempre per me, ma la verità era un’altra. Lei non c’era più, morta, andata. Non l’avrei più rivista, non avrei mai sentito i suoi racconti, non avrebbe più ascoltato le mie storie, non avremmo più condiviso le nostre ragioni. E senza un motivo, senza almeno un motivo che potevo ritenere valido, mi ero a ritrovato a piangere nella strada, in mezzo alla gente, sommessamente senza esagerare, con solo poche lacrime che serravo negli occhi per timore che si scansassero anche loro da me.L’auto era stato un buon rifugio, il traffico un antidoto efficace. Perché non ci si riesce ad immaginare quanti possano essere gli idioti che consumano inutilmente benzina dentro enormi ed ingombranti macchine che ne devono dimostrare la potenza, ma che per me ne dimostrano soltanto la stronzaggine. E già. Non sono proprio adatto ad amare tutta la gente. La maggior parte mi sta sulle scatole, che ci posso fare?E quella biondina che si era fermata davanti ad un cancello di scuola bloccando il mondo degli automobilisti di quella strada mi era sembrata proprio adatta a fungere da parafulmine per la mia rabbia. Ma sentirmi confuso in un vociare di clacson ed insulti non era proprio quello che mi avrebbe aiutato a scrollarmi di dosso l’inquietudine che mi trascinavo addosso cercando di allontanarmi da quella morte indesiderata. Qualcosa di imprevisto aveva poi riattraversato la strada bloccata afferrata alla mano della responsabile di quel blocco di traffico. Una bambina che sembrava quasi una miniatura era immersa in un mare di lacrime senza che la sua mano nella mano di quella biondina dall’auto in doppia fila la potesse consolare. Quanto dolore immenso c’era in quel piccolo corpo, tanto dolore che non riusciva a contenere, e debordava nelle lacrime. E mi ero messo ad osservare curioso, forse per la prima volta così tanto curioso della vita altrui.Ma al contrario di quello che mi sarei aspettato da quel momento così tragico per me, non stavo sminuendo il dolore della bambina, anzi me lo sentivo vicino, lo sentivo dentro, che però non si andava ad aggiungere al mio, ma al contrario lo condivideva riportando un poco di vita nel mio sapore di morte. E mi ero ritrovato a fare qualcosa che non mi sarei aspettato. Interessarmi di loro.Quanti pensieri, quante paure, quante angosce si possono annidare dentro una bambina che non vede arrivare la mamma all’uscita dalla scuola! E quante volte noi lo sottovalutiamo. E quel visino rigato dalle lacrime era come un’accusa al mondo intero, me compreso che non mi ero mai soffermato nei perché degli altri e tanto meno in quello dei bambini. Ma l’istinto di asciugare quelle lacrime non mi aveva preso. Mi era presa invece la frenesia di spiegare a quella bambina che il dolore non deve prenderti, ma deve insegnare, devi imparare dal dolore e non subirlo.Un fazzolettino nella mano per la piccola, un aiuto a parcheggiare per la madre ed un interrogativo per mio compenso.“…pensavi che mamma non venisse più a prenderti? Che si fosse dimenticata? Ma anche lei stava male…davvero…non sai quanta preoccupazione aveva di saperti qui da sola…non sai quanto potesse essere angosciata…”“…ma ero da sola…”, aveva singhiozzato.“Anche lei, anche lei era sola, in mezzo a tutta questa gente che le impediva con le loro macchine di venire da te…non lo sai?...ma tu lo sai che mica tutte le macchine sono uguali…ci sono quelle buone e quelle cattive…quelle che sono educate e simpatiche come voi e quelle che sono maleducate e prepotenti proprio…proprio come questa qua…”. E le avevo indicato un SUV nero parcheggiato sul marciapiede.“…e perché è cattivo?”, smettendo di piangere, curiosa.“Come perché? Ma non lo vedi, guardagli la faccia, guarda che due grossi occhioni gialli che ha qua davanti, con quelli ti squadra sentendosi superiore, ti sfotte quasi…ha la gomme alte quasi come te…e poi…guarda qua quanto posto si è portato via…tutto il marciapiede…pensa a quanti bambini potrebbero giocare al posto di questa auto cattiva!!...”“…e allora è cattiva anche la macchina di mamma che non viene mai!”“Cattiva?...non lo so…forse è solo un po’ timida, ma cattiva non direi…vedi che i suoi sono occhi più dolci, e poi non è così presuntuosa come quella là…ha le sue ruotine piccole piccole e poi non è neanche tutta lucida, si tiene la polvere addosso proprio per non darsi delle arie…a me è simpatica…a te no?...guarda, sembra quasi che ci sorrida non trovi?”“mamma, mamma…ma mi sorride la tua macchina?”“Ma che gli ha raccontato? Non vede che si confonde?”“Gli ho solo detto quello che bisognerebbe dire ai bambini…che il mondo è fatato e loro vivono in una favola…ma che glielo dico a fare? Lei forse fa parte di quelli che le favole le hanno dimenticare e perse…”Girare le spalle ed andarsene era l’unica cosa da fare, ma la voce della bimba e della mamma mi avevano richiamato. Ed inspiegabilmente, inaspettatamente mi ero ritrovato ad un tavolino di bar con una splendida mini bambina con davanti un gelato più grande di lei, una giovane mamma con un lavoro precario che le portava via la giornata, e una vecchia amica che se ne era appena andata ma che mi stava insegnando come continuare a vivere.          (segue)