storie di Sebastiano

2° UN BAR, UNA PROPOSTA, UNA RINUNCIA (prima parte)


Sembra facile parlare con la gente. Ma non è vero, non è così. Non è così naturale sapere di cosa parlare dopo le prime dieci parole. E quando il silenzio cala, l’imbarazzo è insopportabile, ma non riesci a scrollartelo di torno. Tutto resta dentro come se fosse impossibile scegliere un argomento giusto. Beati bambini con la loro spavalda spontaneità.  Beata questa bambina con le sue smorfie sporche della panna del gelato che sta mangiando, con le sue piccole grandi domande senza risposta, le sue risa senza imbarazzi. Inoltre, non riuscivo proprio a capire il perché la mammina mi avesse offerto questo caffè al bar di fronte alla scuola. Cosa voleva da me? Perché proprio oggi mi ero ritrovato in quella situazione? Che c’entravo io con lei e con quella bambina che intanto mi squadrava e mi sorrideva di soppiatto, di nascosto, furbetta.  Era la curiosità che mi teneva lì? Non lo sapevo, non lo capivo. Oppure lo sapevo, e mi infastidiva. Mi innervosiva soprattutto quel contrasto di sensazioni diverse, che mi trasformava l’angoscia della morte in un rincorrere la vita, la vita qualsiasi, la vita qualunque, perché io lo potevo ancora fare. Io avevo ancora il lusso di vivere e mi sembrava un peccato mortale non farlo, anche nella più insignificante situazione. Come per un caffè, in un bar con una sconosciuta che non stava neanche minimamente cercando di celare di provare antipatia nei miei confronti. Chissà perché poi?Alla fine però era stata lei, la mammina, a rompere il gelo. “…io glielo devo proprio chiedere, guardi… cos’è questa storia delle favole, di me che ne sono fuori e di mia figlia che le dovrebbe vivere… lei non mi conosce e mi parla così… ma perché?”“…lo sa? …era tantissimo tempo che non mi fermavo a parlare con qualcuno di estraneo, sconosciuto... poi, con una bambina, figuriamoci!!... ma oggi ho avuto la sensazione che fosse diverso… forse perché oggi per me non è un giorno come un altro…”“E noi che centravamo? Perché dirmi quelle cose? Mi conosce forse?”“Si è offesa?”“No… e di che poi?... ma mi ha disturbato quel suo modo di fare… ”“…le favole?”“Ma sì! Ma sì! Ma che c’entrano le favole con un ritardo a scuola, che ne sa lei delle favole… finite…”“Che strano, è proprio strano… ho la sensazione che ci sia qualcosa in lei che debba esplodere da dentro… qualcosa che io sono andato ad urtare… casualmente… con una frase che l’ha toccata… non ha più favole nella vita? Le scoccia che ce se possa accorgere?”“Ma da cosa… da cosa?”“E’ così?”“E se lo fosse?”“Ci sarebbe un perché…”“E a lei che gliene frega??”Già, a me che me ne importava? Perché me ne doveva importare? Eppure era come se mi stesse a cuore quella donna con quella bambina, e ne percepivo il disagio, il malessere, forse l’infelicità. E chissà perché anche la solitudine. Sensazioni dettate dal nulla. Forse dal pianto della piccola e dalla fretta della madre che non se ne curava. Forse dal gesticolare, dal tono, dallo stringersi le mani con troppa forza. Non lo sapevo. Non sapevo il perché mi trovassi lì e il perché pensassi quelle cose e soprattutto perché mi interessasse. Ma avevo la sensazione che non ero lì per caso. Avevo l’assurda sensazione anche di non essere solo. Era come se facessi tutto in nome, per conto, insieme a Camilla. Che assurdità. Lei non c’era più, era appena morta. Ma avevo la percezione esatta della sua vitalità. Non potevo scrollarmela di dosso ma poi, tutto sommato, non me ne dispiaceva. Così avevo risposto con un innaturale tono suadente al suo tono seccato e scostante. “…non è una giornata come le altre la mia… gliel’ho detto… e riflettendo mi sembra proprio che questa sua diversità stia proprio continuando… ”“Non lo è?? Che ha di anormale?!”E dopo aver respirato a lungo, e profondamente, come per prendere una rincorsa o come per immergermi nell’acqua in apnea, avevo risposto, ma in un modo più articolato della sua stessa domanda, impegnandomi a dire. E scivolando in un tu quasi involontario, irreale.  Quasi a non sapere a chi stavo parlando. Se a lei, o a me, o forse proprio a Camilla.“Hai notato come ci hanno portato via la nostra spontaneità, il nostro modo di stare con gli altri? Tutto è diventato una lotta, una guerra, una competizione… stare contro senza motivo, come se si dovesse, se non se ne potesse fare a meno… solo ieri non mi sarei mai permesso di parlare con una bambina, come ho fatto con tua figlia… mi sarei sentito a disagio… perché un adulto che parla con una bambina senza permesso viene immaginato subito in modo sporco… come se dovesse essere per forza un pedofilo… e poi  a dirla tutta, non avrei parlato neanche con te… avrei avuto timore che tu mi potessi giudicare, che ne so?, un vecchio bavoso che dà fastidio alle ragazzine…”“Ragazzina?! Io?!”“Già, quanti anni avrai? Quindici, sedici?!?”Lei si era sciolta in una risata prima di rispondere, “…ma va!! Ne ho quasi trentadue!!!”“Però!! Una vecchia!! Proprio una vecchia!!... ma lo sai che rispetto a te la gente mi potrebbe definire come pedofilo? Ho un quarto di secolo più di te!!”“…e allora?”“Allora che?”“Allora, ad esempio, che giorno è di particolare perché hai deciso di parlare, di raccontare di favole, di dirmi che io le ho perse… allora finisci di dire… ”“Ah! In quel senso, …allora…!!”“Ed in quale altro senso?”“Uno doppio di senso… ma lasciamo perdere… la storia è semplice… oggi un’amica mi ha lasciato, anzi, per come la vedeva lei, ci ha lasciato, a tutti, anche a te che non la conoscevi, perché il mondo le apparteneva anche senza conoscerlo…”“Morta?!”“Almeno pare…”“Mi dispiace… come…”“Come è successo? Mah… molto banalmente ha cessato di respirare… e per una che  negli ultimi tempi ad ogni respiro sentiva dolore, non è stato proprio un male fino in fondo… erano due anni che un tumore la stava uccidendo… ha lottato, ha resistito fino a che ha potuto, ma alla fine lei ha perso ed ha vinto il tumore… comunque non mi piace pensarla così, come una cosa finita, andata, come un participio passato… io la sento ancora presente… forse anche di più di prima… una strana sensazione… che non so quanto durerà… dopotutto non saranno neanche venti minuti che sono uscito da casa sua… neanche un’ora che so che se ne andata… chissà quanto mi durerà…”Lei si era fatta seria, triste forse, sicuramente malinconica. “…dura, dura… se vuoi bene ad una persona veramente…”“…ne sai qualcosa anche tu?”“Già…”“…da quanto tempo?”“Da sempre… ormai sono quasi tre anni… ”“Chi era?” “Mio padre… uno che come te parlava di favole, raccontava di favole, voleva farmi vivere in un modo di favole… e forse ci vivevo sul serio fino a quando lui era vivo…  forse ci avevo creduto sul serio… ma il mondo non è una favola, me ne sono dovuto rendere conto… troppo tardi… e sulla mia pelle… ed è stato brutto… non voglio che Ilaria lo provi mai…”“Ilaria è tua figlia?”“Già”“E tu come ti chiami?”“Emma… ma perché me lo chiedi? Che ti importa?”“Nulla, è per memorizzare una persona serve un nome…”“Memorizzare…?!”“Sì, ricordarmi di una persona che non ha capito nulla della sua vita, che vuole negare i sogni a sua figlia solo perché i suoi sono stati interrotti… ma non capisci che negare la giustezza della voglia di farti sognare le favole di tuo padre è come farlo morire ancora?”“Come sei crudele…”“No… sei tu crudele… e non lo so perché vorrei spiegartelo io perché… anzi… anzi lo so benissimo il perché… io ho i miei morti e tu i tuoi, ma la differenza è come io me li porto dentro… io ho chiuso la porta della stanza di casa di Camilla con lei morta nel suo letto con una smorfia di dolore dipinta sul viso, con un corpo asciugato, ridotto ai minimi termini… solo ossa… ossa e dolore… e secondo te dovrei ricordarla così, o peggio incazzarmi con lei perché non è viva e cancellare quello che diceva o faceva?? Nooo… proprio no, io me la ricordo che ride, che strilla, che si incazza… io, i miei morti li voglio vivi… e Camilla me la ricordo un poco brilla, a cena fuori, che parla di montagna, di lavoro, di musica… e tu… perché vuoi cancellare le favole di tuo padre? Davvero non te le ricordi più? Neanche una?...”   (segue)