storie di Sebastiano

2° UN BAR, UNA PROPOSTA, UNA RINUNCIA (ultima parte)


“…mio padre… sai com’era mio padre? Un uomo di neanche settant’anni che non aveva mai avuto un malanno… che aveva sempre lavorato… uno che era allegro di natura, che non voleva fare mai preoccupare nessuno, che proteggeva sempre tutti, si preoccupava di tutti… uno che la sera prima di andarsene mi aveva detto che mi vedeva stanca, che dovevo prendermi una vacanza, che dovevo tirare il fiato… si preoccupava per me… per me!!... e lui la mattina dopo non c’era più!! Andato, così… in un attimo… due minuti per farla finita… un infarto ed era tutto finito per lui…”“…ed erano finite le sue favole… perché la vita continua… vero?... tutto intorno ti diceva che la vita doveva continuare…”“Sì, ma come?... non sai neanche quanto continui la vita… tutto continua ad andare per conto suo, senza darti il tempo, senza aspettarti, senza aspettare che un poco del suo dolore se ne sia andato… e ti trovi in mezzo ad un ciclone e non hai più tempo neanche di piangere…”“Così tanto?…”Lei aveva sorriso, amara, ma nei suoi occhi c’era la voglia di sfogarsi, come se nessuno avesse mai ascoltato fino ad allora quello che lei aveva da dire, da raccontare. Da strillare. Ed infatti il tono della sua voce si era alzato, come se qualcuno avesse girato l’invisibile manopola del volume dentro di lei.“…mio padre era un commerciante, figlio di commercianti… il suo negozio era tutta la sua vita… con quello ci ha mantenuto, mi ha fatto studiare, non mi ha mai fatto mancare nulla… con quello aveva comprato la sua casa ed anche la mia, che mi aveva regalato quando mi sono sposata… ed io lo capisco, lo capisco… capisco che lui non abbia accettato di chiudere, di fallire… ma mi fa rabbia che non ci aveva detto nulla, nulla… che lui si era riempito di debiti, aveva ipotecato la casa, il negozio, tutto… e non era neanche la cosa peggiore… aveva preso soldi anche dalle finanziarie… che lo stavano strozzando… e quando abbiamo tirato le somme non ci siamo trovati nulla, anzi abbiamo dovuto anche impegnare del nostro per risanare la situazione… e mia madre non ha retto… non ha retto… dopo che aveva seppellito il marito, aveva perso la casa, il negozio, il benessere… aveva dovuto dare via tutti i suoi gioielli… ed anche i miei… anche i primi orecchini lui che mi aveva comprato… e vuoi sapere che tipo era?... lo sai perché e come ho avuto quegli orecchini?”“Dimmelo…”“…lui non era come gli altri e neanche sua figlia lo doveva essere… e mi aveva raccontato una delle sue storie… mi aveva detto che la fatina dei denti esisteva, ma che non era così facile incontrarla ed averne i favori… i soldi sotto il cuscino che trovavano gli altri bambini li trovavano perché ce li mettevano i genitori… per questo erano sempre poca cosa… invece, e solo alle persone veramente speciali, la fatina dei denti portava un vero dono, molto prezioso… per fargli capire che solo loro erano così speciali… e così quando perdevo un dentino, andavo a guardare sempre se c’era qualcosa sotto il mio cuscino, ma subito, perché mio padre mi aveva detto che la fatina non aveva bisogno che io dormissi… era magica, no?, ed allora per lei sarebbe stato facile fare apparire il suo dono se avesse voluto… e, guarda che proprio non so come avesse fatto, ma una volta mi si è staccato un dentino, l’ho dato a lui e sono corsa a vedere sotto il cuscino ed ho trovato una scatoletta di velluto rosso con dentro due splendidi orecchini d’oro, con un brillantino nel centro… una cosa che desideravo tantissimo… vanitosa come ero… ma così ho creduto per anni che esistesse una fata e che io fossi veramente speciale…”“Mentre la persona speciale era lui…”“…sì, era veramente speciale…”, aveva ammesso sommessamente.“Ma in tutto questo casino che ti è successo avevi comunque un marito vicino, sei sposata mi hai detto…”“…mio marito?... sai quanto tempo ci ha messo ad andarsene? Due mesi… due mesi!!... erano dieci anni che stavamo insieme, c’eravamo sposati da poco, avevamo avuto una bambina… e pensavo che sarebbe stato l’uomo della mia vita, per sempre, quello che mi avrebbe difeso… ed invece, evidentemente stava con me solo perché in me aveva visto un pozzo di soldi senza fondo… quando si è trovato dentro casa nostra mia madre, che non ci stava più con la testa, quando gli detto che doveva rinunciare alle sue settimane bianche, al tennis, alla sua Porche… praticamente è salito sulla sua macchina e se ne andato… facendosi vivo dopo una settimana con l’avvocato, con la separazione… senza neanche parlare, spiegare, discutere… un taglio e via…” E le lacrime sono un brutto affare. Se le hai non le puoi imbrogliare, almeno non per sempre. Perché prima o poi quelle devono uscire. E forse erano proprio tre anni che Emma le teneva dentro, ed ora non le poteva più tenere. E il suo volto si era irrigato di lacrime senza che lei emettesse ancora un fiato. E non si fermavano, non si fermavano più, mentre il suo viso diventava sempre più profondamente infelice e contemporaneamente anche infantile. Uno sguardo sconsolato e indifeso uguale a quello della figlia. Ed avevo provato la voglia di comprare anche a lei un enorme gelato. Ma nel suo caso non forse non le sarebbe servito. Il tempo poi, si era venuto a riprendere il suo posto. Quello centrale. Il ritmo della vita che viene scandita da un freddo invisibile ticchettio dettato dai mille impegni, le mille scadenze, le mille schiavitù di cui ci facciamo ricattare ogni giorno nella nostra esistenza. E così lei aveva dato uno sguardo all’orologio e d’improvviso si era come ripresa, si era asciugate le lacrime, chiamato a sé la bambina.“…ho fatto tardi… cavolo… tra un’ora la badante se ne va e devo ancora fare la spesa…”. Poi rivolta a me, “…devo andare, mi dispiace, c’è mia madre che non può stare da sola… ma mi ha fatto piacere parlare… non c’ero riuscita con nessuno… che strano… e non so neanche come ti chiami…”“Sebastiano…”“…mi farebbe piacere riparlare con te… mi dai il cellulare?”“…volentieri, ma non mi ricordo il numero… e sinceramente non so neanche che fine abbia fatto… sai, in una giornata così…”La sua faccia si era contratta come se fosse stata colpita. “Scusa, era un’idea come un’altra… non fa’ nulla…”“Ma no… dammi il tuo di numero… ti chiamo io… se ti fa piacere… senza impegno… come un vecchio zio… un nonno…”“Un uomo… è più semplice, non trovi?”E mentre l’osservavo andarsene di corsa con la bambina verso l’auto, mentre la faceva salire molto velocemente, partendo senza neanche badare a chi stava tagliando la strada e imprecava per il suo modo di guidare, rigiravo dentro le mie dita il foglietto con il suo nome e il suo numero. Quello che mi aveva detto alla fine mi aveva fatto sentire improvvisamente angosciato. Che c’entravo io con Emma? Nulla. E sicuramente nulla di quello che si poteva intravedere nelle sue ultime inquietanti parole. Rivedermi come un uomo. Semplicemente come un uomo. Pericolosamente come un uomo, mi veniva da aggiungere. Avevo tirato fuori il cellulare che, mentendo, le avevo negato, indeciso se memorizzare il suo numero oppure no. Ero irresoluto. E cercavo nella storia di Camilla una risposta. Come se lei mi stesse accompagnando da un'altra dimensione. Come se lei mi avesse guidato verso quella donna con la morte nel cuore, per liberarla in qualche modo e restituirla alla vita. Come se Camilla mi avesse assegnato una missione a suo nome. Ma non poteva essere. Un’altra dimensione non esiste, la morte termina tutto. Quindi Camilla non può fare più nulla per nessuno. E allontanandomi con passo sostenuto da quel tavolino di bar, passando vicino ad un cestino ci avevo fatto cadere il foglietto di Emma. Non per lei, non per me. Ma quasi contro Camilla. Contro l’idea che lei potesse ancora esserci, da qualche parte diversa dalla realtà.Anche se mi piacerebbe. Ma sperare l’impossibile su di lei, non sarebbe stato gradito neanche a lei.   (segue)