storie di Sebastiano

3- UN PASSO DOPO L'ALTRO (prima parte)


Un passo dopo l’altro i giorni sfilano via come fossero tutti uguali. Ma non è proprio così, non è mai così. Anche se è facile perdersi nella routine superficiale, così da pensare che tutto sia sempre costantemente uguale ed immutabile. Ed invece no, invece ogni passo è diverso, con una cadenza diversa, un modo diverso di porre il nostro corpo, di esprimere quello che si sta vivendo.Mi ero fermato a guardare come la gente camminava per strada. Mi ero fermato senza motivo, mai poi, come se fossi stato improvvisamente illuminato, avevo capito che il motivo c’era. Non stavo che proiettando me stesso nella strada, tra la gente, rivedendomi e soppesandomi in quella giornata strana, perché i miei passi quel giorno non erano stati affatto gli stessi. Ed ancora non sapevo, ma me lo sentivo, che  sarebbero continuati a cambiare. Ad essere totalmente diversi. Ed avevo cominciato a riflettere.Il passo della mia mattina era stato il solito, un passo veloce e nervoso di chi deve timbrare il cartellino al lavoro. Con lo spirito idiota ed indifferente a tutto e a tutti, proiettato esclusivamente verso l’arrivare, stressato da un tempo che scorre veloce e che nella mente continua a ripetere “sono in ritardo”. Come se un minuto dopo fosse una sconfitta. Ma poi, come ogni buon impiegato che si rispetti, non appena timbrato, il mio passo si era rallentato, quasi a fermarsi, era diventato svogliato e stanco, e come per incanto tutto intorno si era decelerato e il tempo era diventato lento, le ore lunghe, infinite, in una attesa infruttuosa ed immobile della fine della giornata. Come se il tempo passato là dentro non mi appartenesse e quindi non lo dovessi vivere, ma sopportare. Normalmente, appena finito l’orario di lavoro, fuori dall’ufficio, la giornata si sarebbe rimessa a correre e con lei anche il mio passo, alla ricerca di una fretta irrazionale, per risparmiare insignificanti frazioni di tempo che poi avrei sprecato nel dormiveglia davanti ad una televisione accesa. Ma quella giornata no. Camilla si era spenta. Ed un messaggio sul cellulare mi avevo comunicato la cosa con un secco “è morta” che era stato come una stilettata che mi aveva colpito fin dentro al mio passo. Che era improvvisamente diventato quello di uno ricco di tempo. Nessuna corsa, nessuna voglia di sbrigarmi, nessuna competizione con il resto del mondo che continuava ad andare di fretta. E mi ero improvvisamente quasi fermato, senza neanche tanto pensare. Anzi, forse mi ero fermato proprio per non pensare. Ed il mio passo era lento, impaurito, strascicato come la mia mente che non era riuscita più ad essere lucida, fino a fermarsi impietrito ed attonito ai piedi del suo letto di morta. Ed era stato difficile rimetterlo in moto, tra i mille ostacoli di un marito distrutto, le lacrime sentite miste alle frasi ipocrite di circostanza di tanti vivi presenti nel suo intorno, il vuoto interiore provavo osservando quel corpo di donna ormai svuotato dalla sua vita.Poi ancora era tutto cambiato non appena avevo lasciato la casa di Camilla, con l’immagine di lei ferma nei miei occhi, con i miei occhi che si perdevano nel buco nero del nonsense della morte. Ed il mio andare era di un passo regolare, senza impazienza, senza voglia, senza scopo. E quel mio camminare sbadato mi aveva portato fino ad Emma ed ad Ilaria, in quel bar davanti alla scuola, casualmente, senza che provassi nessuna voglia particolare di essere con loro. Perché non cercavo proprio qualcosa che mi fermasse, che facesse ragionare, ricordare, capire. Ed invece c’ero caduto proprio dentro, ero caduto in un logico, freddo razionalizzare la morte. Quella di Camilla e quella del padre di Emma. Diverse nell’accadere, ma così simili nelle loro conseguenza principale: il dolore.Eppure aveva fatto bene anche a me parlare della gente andata, di quelle vite accantonate dentro, nascoste, quasi fosse un crimine non cestinarle. Vite grondanti di ricordi, di morti che grondavano rimpianti. Sì, mi aveva fatto bene. Ma di un bene che lascia sfiniti, e di cui non si vuole più rivivere i momenti, e se ne ha paura. Ed avevo buttato il foglio con il nome e telefono di Emma soprattutto per questo, perché avevo timore di un qualsiasi coinvolgimento che potesse riportarmi a quel tristissimo star bene, ma in quel modo. Qualsiasi immagine legata a quella mezz’ora scarsa di bar mi disturbava. Il pianto, la rabbia, i ricordi, mi erano pesanti. Ma soprattutto era la voglia di lei di rivedermi ad inquietarmi. Così il mio passo era diventato deciso, risoluto. Un passo che mi portasse via, lontano, lontano dall’illusione di essere anch’io stesso un’illusione di altri e di me stesso. Ero diretto dal mio medico, e di solito mi sarebbe scocciato buttare il mio tempo nella sala attesa, tra la sofferenza vera o presunta della gente in attesa, con l’odore del sudore misto a quello dei medicinali, con le chiacchiere inutili fatte di luoghi comuni. Chissà poi perché, quella situazione e una di quelle che più di altre, scatena nelle persone la voglia di pontificare? Ma quella volta no, ero entrato nello studio del mio medico come se si trattasse di  un rifugio, un ricovero di salvataggio. E nella sala d’aspetto nulla mi stava disturbando, anzi la musica di sottofondo mi stava rilassando oltre misura. Sentivo cadere dentro di me la sensazione rasserenante del superficiale, come se tutto, anche l’insignificante, fosse diventato importante. Provavo la sensazione che si ha dopo uno scampato pericolo, quando ci si sente in salvo e l’adrenalina si placa. Quasi mi era dispiaciuto quando era venuto il mio turno, ed ero entrato dal medico con il passo tranquillo, senza ansia, senza timore. Sereno.Ma dopo, non si poteva dire che nulla fosse cambiato, quando poi ero tornato per strada. Mi stavano rimbombavano in testa parole di cui non percepivo il significato fino in fondo. Parole estranee alla mia vita. Radiografie, analisi, ecografie, chemioterapie, metastasi, radioterapie, lastre, linfomi, fibromi, neoplasmi, sofferenze, risonanze, contrasti, percentuali, speranze, tumori, mesi di vita, giorni di morte.  Di che cazzo mi aveva parlato quel medico? Di chi? Di cosa? Di me non era possibile, non poteva essere possibile. Perché doveva essere possibile? E poi chi gliene aveva dato il diritto, l’autorità, la certezza? Bastava qualche analisi,  qualche lastra, per dare una sentenza? Forse a lui era bastato, ma io non lo sapevo. Anche perché non lo avevo ascoltato veramente, fino in fondo. Mi ero come estraniato, lasciandomi cadere in un buco nero dove le parole mi rimbombavano assordanti. Come sa essere assordante un cancro. E come un automa andavo sentendo il mio passo come mancare, come stessi camminando sul nulla, come se fossi ubriaco, come se sotto il mio piede la terra non arrivasse mai. Avevo vagato a lungo, senza capire dove e perché stessi andando. Le immagini di realtà che cercavo per potere uscire da quello stare e riprendere consapevolezza della mia vita, erano come svanite, tutto mi sembrava sfuggente, innaturalmente vacuo, nulla aveva più un’importanza intrinseca propria. Cosa poteva contare un’auto, un cellulare, un orologio di marca? Che importanza il sapere, la cultura, il sociale? E la politica, lo sport, la religione, argomenti di cui avevo discusso, avevo sentito discutere, mi ero appassionato, avevo contrastato o favorito, ora li sentivo vuoti, senza nessun interesse da parte mia. Guardavo la gente, che era sempre di meno, sempre più infreddolita e affrettata verso la propria casa. Guardavo le luci delle finestre delle abitazioni che si accendevano una dopo l’altra, sostituendo le insegne dei negozi che si spegnevano una dopo l’altra, come fossero le lampadine di un albero di natale. Guardavo il cielo che era diventato sempre più scuro e sinistro nel buio e nel silenzio delle strade semivuote di gente. E mi sentivo solo. Ed ero solo. Solo davanti a qualcosa che potevo affrontare solo io, perché nessuno mi avrebbe potuto aiutare. E finalmente mi ero conto che il mio nemico ero diventato io, che era il mio stesso corpo ad uccidermi.  (segue)