storie di Sebastiano

3- UN PASSO DOPO L'ALTRO (ultima parte)


“Che fine hai fatto?”, mi aveva chiesto al cellulare Lucia.“… nessuna fine… ho voglia di rimanere da solo… ”“Ma che dici? La cena è già pronta… si raffredda tutto… dai, sbrigati… ““Non ho fame stasera… tu cena, cena pure… poi io torno… ““E no!! Che ceno!?! Io ti aspetto, io senza di te non mangio… torna… ““Non ne ho molta voglia… ““Che hai?”“…sai di Camilla?”“Certo… sono andata e mi hanno detto che eri andato via da poco… e che l’avevi presa male…”“Perché c’è qualcosa da prendere bene?!”“No… che c’entra… io ho ancora un buco allo stomaco dal dolore… ed ho anche bisogno di te… proprio oggi… non fare l’egoista… torna…”“…arrivo…”Avevo spento il cellulare scuotendo la testa. Lucia è così. E non mi aveva affatto meravigliato che alla fine avesse trovato il modo per farmi sentire in colpa. Anche se sapevo benissimo di non averne di colpe. O meglio non le volevo ammettere, perché a riflettere bene, io non l’avevo avvertita di nulla. Ed è normale preoccuparsi. Ed io non volevo farla star male. Ma lei ha comunque una capacità particolare a fare sentire le sue apprensioni sulla pelle degli altri. E dopo vent’anni di convivenza ancora non ero riuscito a venirne a capo. Ed infatti ero tornato a casa, a cenare con lei. Come voleva lei. E la mia angoscia, il mio male, la morte che mi portavo fuori e dentro di me, era tutto passato in secondo piano. Come poteva essere? Non lo sapevo. Ma era così.La cena era fredda di nome e di fatto. Non si riusciva a capire se era il cibo o la situazione. Lucia così tanto chiacchierona di solito, se ne stava in silenzio a rimestare la minestra nel piatto, con gli occhi distratti dalla televisione che riempiva il silenzio. Un lontano sottofondo che nessuno seguiva, ma che come se non fosse lecito, neanche nessuno spegneva. Tra noi come un muro. Un’invisibile separazione insuperabile. Cosa fosse non si poteva capire, eppure era tangibile. La guardavo cercando di capirne le motivazioni, e ne percepivo l’irrequietezza, come se non riuscisse ad esprimere qualcosa che dentro di lei però premeva per uscire. Ma anch’io avevo qualcosa da dirle e non sapevo come, e non sapevo se volevo dirglielo. Dentro di me stava urlando la mia morte per essere ascoltata, compresa, forse compatita, ma alla bocca non salivano parole. Forse, al contrario, non avevo da dirle niente. Perché coinvolgere il mondo nei propri guai? Per condividere il male, per scaricare la propria angoscia su di loro? Non lo ritenevo giusto. Seppure io ero sempre stato disponibile ad ascoltare i problemi degli altri, seppure mi ero sempre sentito di partecipare al loro dolore, di aiutarli a risolvere i loro guai, quando era toccato a me, d’improvviso, mi ero accorto che non lo ritenevo giusto, che non era lecito scaricargli addosso questo enorme peso che tenevo dentro me. Dopotutto il tumore era mio e non è proprio qualcosa che si possa condividere. E stavo capendo, approvando dentro di me la frase che nella falsa poesia si ripete, ma che stavo sentendo in tutta la sua profonda verità: “…quando si muore, si muore soli…”.Bene, questa era la parte del mio muro, che non potevo abbattere, ma potevo cercare di aggirare con qualche frase scontata, con qualche discorso preordinato, distogliendo la mia attenzione su una cosa grave come la morte, nuova come la morte, ma che in fin dei conti mi aveva già annoiato. Dopotutto che cosa voleva farmi capire il mio medico? Che dovevo morire? Ma va’!!, come se non lo sapessi già da solo che dovevo morire. Prima o poi. Beh, ad essere pignoli mi aveva detto che nel mio caso sarebbe stato più prima che poi, ma su questo argomento non è proprio il caso di sottilizzare. Dovevo morire? Va bene, ma fino a che ero vivo volevo vivere, non volevo ripiegarmi su il mio compatimento, né da parte mia né da parte di nessun’altro. Neanche di Lucia.Ma lei forse sapeva? Aveva capito? Forse, perché non afferravo cosa potesse essere la sua parte di muro, anche se sicuramente doveva essere qualcosa di grave, che come succedeva a me, non voleva uscire dalla sua bocca e continuava a macerarla dentro. Cos’era? Cos’era di così grave?“…ed allora? Parla!!... non vuoi dirmi che cosa ti rode dentro?”“…niente …niente…”“Lucia!! Cazzo!! Lo sai che se c’è qualcosa che non sopporto è quando ti vuoi fare pregare per dire quello che hai… perché tanto lo sappiamo tutti e due che prima o poi lo tiri fuori…”“E’ che ho paura della risposta…”“Oddio… e che sarà mai…”.“La mia solita paura di perderti…”Ero esterrefatto. Allora aveva capito. Oppure aveva saputo. Tanto meglio, o tanto peggio. Ma almeno non avevo il peso di dirglielo.“Chi te l’ha detto?”“…allora è vero…”“…così pare…”“E non mi dicevi nulla?!”“Certe cose è meglio non saperle… io la penso così…”“Stronzo!! Ma almeno cerca di nasconderle… ti hanno visto… me l’hanno detto, un collega mi ha telefonato per dirmelo… quasi contento… anche lui che stronzo!! È sempre stato così invidioso di noi… ed io che pensavo che ritardassi perché eri sconvolto per Camilla… ma è una cosa seria?”In realtà non avevo stavo comprendendo un granché. Un collega? Mi aveva visto? Era dal medico? E che ne poteva sapere lui? E poi l’invidia che c’entrava? Comunque le avevo risposto, pensando ancora di essere a tono, ma a breve mi sarei reso conto di trovarmi dove non volevo, ma dove forse mi sarebbe convenuto restare.“Sembra che sia veramente seria… dovrei fare delle altre prove, ma dentro di me sento che è tutto tremendamente vero…”“E me lo dici così?? Dopo vent’anni!!”“E come dovrei dirtelo?”“…ma come si chiama? Quanti anni ha?? No non dirmelo, forse mi farebbe più male…”“Ma chi??”“Non fare lo stronzo, lo sai benissimo… hai appena detto che è anche una cosa seria… ““Ma insomma chi ti ha detto cosa??”“Adesso cerchi di negare? Ma se hai ammesso… perché fai così?... in fondo non hai cercato neanche di nasconderti se ti hanno visto al bar con quella… ““Al bar?!...Ma chi ? Emma?!?”“Ah, si chiama così… ““Sì… si chiama Emma, e allora?”E mentre lei scoppiava in lacrime spaccando tutto quello che aveva a portata di mano, io avevo capito, ma non chiarivo, non le toglievo quella rabbia e quel dolore così stupidamente causato da un pettegolezzo idiota. Eppure sarebbe bastato un nulla, perché nulla avevo da nascondere. Ma quel nulla non mi usciva. La testa era in confusione, sospesa tra la futilità di quello che pensava Lucia e la gravità di quello che mi era successo. Ma incredibilmente con uguale peso, tanto da bilanciarsi.“Mi preferiresti morto che con un’altra?”Lei si era fermata, sfinita come se avesse corso una maratona, lasciandosi cadere in lacrime sulla poltrona. Ma poi aveva detto quello che poteva misurare fino in fondo il suo bene.“Morto no!!, mai… pensavo che ormai, anzi, saremmo invecchiati insieme, che eri cambiato, che certe cose non le avresti più cercate… ma sempre meglio questo che la morte… alla tua morte non saprei sopravvivere… “E d’improvviso avevo tutto chiaro dentro me. Tutto messo in fila. Meglio con un’altra che morto. Meglio farle credere che io sia un traditore, sleale ed infame, meglio farle credere che io nella sua vita non ci sia più. Meglio così che costringerla a passare quello che il marito di Camilla aveva passato. Il lento e costante decadimento della persona che si ama. No, questo glielo avrei risparmiato. Meglio un equivoco. Meglio così. Anche se dentro mi stava salendo la voglia di urlarle la verità, anche se dentro sentivo già che mi sarebbe mancata, che stavo rinunciando ad una delle poche cose che mi avrebbe potuto consolare. Ma lo stavo facendo per lei. In quel momento stavo lasciando che le nostre strade si dividessero per sempre, assumendo una colpa che non avevo, riproponendomi di allontanarmi da lei il più possibile per nasconderle la mia morte. Che assurdità!!. Ma l’assurdo mi sembrava perfettamente logico e coerente con tutta quella giornata e trovavo logico tutto quello che era assolutamente illogico. Ma sentivo di avere trovato la via d’uscita per non fare vivere a lei la mia morte, senza pensare a ciò che poteva essere meglio per me. O addirittura per lei. Ma avevo scritto la parola fine ad una storia di vent’anni e due figli. Prima che il tumore lo facesse per me. (segue)