storie di Sebastiano

4 - UN ADDIO, UN SOGNO, UNA DONNA (ultima parte)


Erano state frustate e non parole quelle che avevo sentito e non mi avevano fatto bene. Avevano solo incrinato le mie sicurezze riempendole di dubbi e di domande irrisolte. Ma quello che mi stava passando per la testa in modo prepotente rispetto a tutte le altre considerazioni era il perché di tanto astio, quasi interessato per giunta, da parte di Anna nei miei confronti. Avevamo scambiato solo qualche parola da quando l’avevano assunta tre anni prima. E sempre solo per lavoro. Io non sapevo nulla di lei e della sua vita, non sapevo chi fosse, se fosse sposata, se avesse figli, e lei non sapeva nulla di me oltre i dati della mia scheda anagrafica della segreteria. Perché si interessava a me?“Ma tu vivi sola?”“…quasi…”“Quasi significa in pratica: ‘fatti i cazzi tuoi’…”“Sono tre anni che sono qui, non abbiamo mai parlato… non ti sei sempre fatto i cazzi tuoi?…”“Anche tu…”“Vero…che abbiamo da dirci, dopotutto… anche tu come gli altri hai sempre avuto una vita che non si tocca con quella degli altri… ed adesso che la stai perdendo e non riesci neanche a capire che significa, pensi agli altri? Ma pensa a te, a sopravvivere se ci riesci… non tutti hanno questa possibilità… non tutti ci riescono… e chi resterà dopo di te si dara pace…”“Ma tu non mi sembri in pace, proprio per niente… ““Ma io ci sono… esisto… sono qui, non sono morta io… sono sopravvissuta… ho trovato una ragione di vita… mi sono messa a lavorare… sono viva…”E questa volta non rideva, non rideva più. I suoi occhi erano diventati lucidi, la voce un sibilo, il suo corpo già gracile, si era come contratto, ripiegato su se stesso come se fosse di gomma. Ripeteva di essere viva, ma sembrava che parlasse a sé stessa, quasi a convincersi da sola. Io per lei era come se non fossi più là di fronte a lei. Ma come se fosse naturale, se fosse un dovere, mi ero ritrovato a consolare le sue lacrime in un abbraccio. Ridicola situazione se avessi pensato che ero io quello che aveva il tumore e doveva essere rassicurato e consolato. Ed invece la situazione si era rigirata. Ma questo mi faceva sentire ancora terribilmente vivo. Oltre la rabbia e la disperazione, che mi avevano fatto sentire anche forte, la sensazione di essere ancora utile a qualcuno, anche se solo momentaneamente, era quella che mi faceva sentire ancora in vita. Sentivo le sue lacrime sgorgare anch’esse da lontano e avevo capito. Avevo capito che non avevo capito nulla per un’intera esistenza, perché il senso della nostra esistenza mi era diventato chiaro solo in quel momento. Gli altri, sono solo gli altri, e solo negli altri possiamo sentirci di avere un senso, di esistere veramente. Anche solo in un abbraccio.E da quell’abbraccio si era come sciolta la statua di ghiaccio che conteneva Anna per portare alla luce una vita vissuta nel dramma di una madre che ti abbandona e di un padre che si ricostruisce una vita con una donna che invece di essere una seconda madre diventa una prima matrigna, dispettosa e cattiva. Poi la speranza in un matrimonio che era stato sporcato da una sua sterilità frutto di un linfoma benigno, per poi naufragare definitivamente nella malattia del marito, lunga, pesante, costosa. Quella che non si conosce se non se vive. La sclerosi multipla che ti immobilizza lentamente e lentamente ed inesorabilmente ti spegne lasciando la beffa atroce di un cervello integro che ti fa sentire ogni tua nuova perdita di vita. Il marito di Anna era immobilizzato in un letto e lei e la cognata facevano a turno per accudirlo. Ed erano stanche loro come lo era lui. Ma quella malattia non ti lascia neanche la possibilità di scelta. Condannato a sopravvivere a sé stesso. Condannate le persone accanto a morire insieme a te, giorno dopo giorno. Anna era come una vedova senza morto da seppellire. E non aveva mai trovato neanche il coraggio di tradire quell’uomo senza ormai nessuna speranza di tornare ad essere veramente un uomo. E lei era diventata schiava del suo stesso amore, ma fino ad odiarlo senza riuscire a fare a meno di amarlo contemporaneamente.Ed alla fine tutte le sue parole su di me erano diventate chiare. Da una morte ci si consola, da una vita legata ad un respiratore non ci si consola, non si supera, non ci si dà pace. E non diceva quello che io sentivo palpabile. Che desiderava la morte del marito e se ne sentiva terribilmente in colpa come se diventasse poi lei la causa di tutto. Ed aveva nascosto questa sua angoscia dietro un sorriso, palesemente sforzato, mentre mi diceva che non si ricordava neanche più di cosa significasse sentirsi donna. E in quel momento ero io che non riuscivo a trovare la forza di sorridere. Perché avevo una domanda senza risposta. Oppure senza nessuna risposta piacevole. A prescindere dal volere di entrambi, ero abbastanza vivo per potermi proporre a farla sentire io donna ancora? (segue)