Creato da sebastiano19maggio il 05/10/2008

storie di Sebastiano

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5 - UN ALTRO GIORNO CHE SE NE VA (prima parte)

Post n°324 pubblicato il 01 Gennaio 2013 da sebastiano19maggio
 
Tag: romanzo

La vita fa veramente schifo. Ma quanto è affascinante viverla. Anche nei periodi peggiori. Anche quando ci si rende conto di averla sprecata nei suoi momenti più belli, in quelli più brutti, ma anche in quelli marginali, minimi, insignificanti. Proprio come mi ero reso conto che fosse successo alla mia vita, perché avevo capito che l’avevo vissuta passando accanto a tante storie senza neanche vederle. Come se a vivere fossi stato soltanto io. Almeno fino ad allora.

Almeno fino a quando non mi ero messo a parlare con la gente, forse proprio  come faceva anche Camilla, o forse no, ma sicuramente avevo trovato un modo nuovo di rapportarmi con il mondo, senza pensare di dovere averne un tornaconto. Certo che prima non ero stato un menefreghista, nel senso che se qualcuno aveva avuto bisogno di me io non mi ero mai tiravo indietro. Ma sempre con prudenza, senza sbilanciarmi, senza risultare troppo coinvolto.

Proprio come si fa quando si fa beneficienza, quando si sottoscrive per Emergency o per l’Amref. Si dona, si partecipa, ma solo con denaro, e neanche tanto, indubbiamente meno di quello che si potrebbe. Ma poi non ci sporca l’esistenza fino ad essere coinvolti nell’anima dalla sofferenza altrui. Sicuramente ci si ripete che no, non si può fare di più, perché per esempio non si è medici o infermieri.

Ma neanche Vittorio Arrigoni lo era e non ha esitato a partire, sacrificarsi accanto ai Palestinesi, lui sì altruista.

Ed io che avevo fatto della mia esistenza? Non ero riuscito neanche ad incidere sulle persone che mi stavano accanto. Bastava guardarmi alle spalle per capire la superficialità. Che improvvisamente stavo traducendomi nel termine più odioso, in egoismo.

Anna, ad esempio. Non sapevo nulla di lei, ma per quale motivo? Forse non sapevo di lei proprio perché non volevo sapere. Era brutto da dire, ma a chi stavo nascondendo la verità? A me stesso? Non riuscivo a farlo, non potevo oltre. Perché liberamente la mia mente se ne era andata alla volta che l’avevo sentita piangere sconsolata, sola chiusa nel bagno dell’ufficio. O quell’altra volta che era scappata precipitosamente dal lavoro dopo una telefonata concitata. Sarebbe bastato chiedere, interessarsi, partecipare. Sarebbe bastato poco. Ma quel poco io non l’avevo mai dato. E ne avevo quasi rimorso.

Una fitta mi aveva preso, lancinante, dalle parti dell’intestino. Non era la prima volta che mi capitava. Era invece la prima volta che ne conoscevo il motivo. Non era lo stress, non la digestione di qualcosa di pesante oppure la fame. Era il tumore. Che da tempo si faceva sentire e che io volevo ignorare. Proprio come le storie degli altri. La mia salute l’avevo trattata nello stesso modo. Superficialmente. Non potevo star male, non me lo potevo permettere, non avevo tempo. Non avevo mai avuto tempo per nulla. Che ironia! Proprio quando il mio tempo stava per essere terminato da un cancro, stavo capendo di come lo avessi sprecato quando lo avevo a disposizione.

Quello che capivo era disperante, ma nel contempo comico. Perché tutto quello che avevo costruito intorno a me stava perdendo di valore. Tutto quello a cui avevo dedicato tutto il mio tempo era diventato insignificante. Il lavoro e la carriera, la casa e i mobili, l’auto e il cellulare. Improvvisamente erano tornate ad essere solo cose. Totalmente futili. Ed il bello che mi era tutto dannatamente chiaro, ma con cinquant’anni di ritardo.

Un passo dopo l’altro, un istante dopo l’altro, una malinconia dopo l’altra, mi stavo allontanando dal mio ufficio, da Anna e dalla sua disperazione, ma non riuscivo ad allontanarmi dai miei ricordi. Volevo scrollarmi di dosso tutta quella latente disperata tristezza cercando degli angoli di vita. E involontariamente oppure inconsciamente mi ero ritrovato davanti alla scuola del giorno prima, dove Emma portava la bambina.

Uno sguardo all’orologio. Ancora le otto e un quarto. La mattina era ancora all’inizio. Avevo tutta la giornata davanti. Senza sapere che cosa fare. Dopo tanti anni di orari e lavoro non sapevo cosa fare. E la cosa mi spaventava ed affascinava nel contempo. Potevo fare tutto, avevo tutto il tempo. Ma il tutto ed il nulla sono spesso coincidenti. Ed il nulla mi terrorizzava ancora di più. Perché nel non fare nulla avevo ancora vivo il retaggio della perdita di tempo che mi schiavizzava la vita e che non mi aveva mai permesso di viverla.

E senza sapere se era tutto o nulla, avevo deciso di restare a guardare. Mi ero seduto al tavolino dello stesso bar del giorno prima, e davanti ad un cappuccino ed una pasta, mi ero messo a guardare le mamme con i loro bambini, che arrivavano, li salutavano e ripartivano dalla scuola con la fretta di chi ha qualcosa da fare, un posto dove andare. Certo, non tutte. Alcune si comportavano invece, al contrario. Correvano fino al portone con il bambino trafelato attaccato alla mano, lo lasciavano entrare, ma poi, non appena risuperato il portone, quasi si fermavano, si avvicinavano tra loro ed in gruppetti di due o tre restano a chiacchierare oppure si allontanavano lentamente, passeggiando. Non è che fosse molto strano, era facile intuire che potessero fare parte delle donne senza un lavoro, oppure di quelle in attesa dell’apertura di un negozio o altro. La stranezza era più la mia sorpresa nel vedere che esistevano persone senza il passo esagitato che aveva accompagnato la mia esistenza, senza la fretta che brucia sotto i piedi.

Ma provavo un gusto particolare, tutto nuovo nel assorbire la vita degli altri con gli occhi, nel cercare di capire scrutando le loro azioni, tutta la storia che c’era dietro. Mi piaceva chiedermi il perché ed anche darmi delle risposte, che se anche non vere lo potevano sembrare, e forse lo erano per davvero vere.

Come la storia che mi si era costruita ascoltando la telefonata di una signora al cellulare. Che poi non avevo neanche fatto nessuno sforzo ad ascoltare, perché lei stava parlando con voce alta, anche se il suo tono forse avrebbe necessitato di più discrezione. Chissà perché la gente non si rende conto di strillare quando parla al cellulare.

“…ciao, bellone…dormivi ancora?... Ti ho svegliato?... Mi dispiace… volevo salire per un caffè, me lo offri un caffè?... Come il solito caffè!?!... Dai che piace anche a te…”

Beh, non era molto difficile da immaginare la storia che si poteva nascondere dietro quella telefonata. Ma mi ero meravigliato di come in pochi secondi fosse totalmente mutato il mio modo di guardare quella signora sulla cinquantina. Aveva appena accompagnato un bambino alla scuola, con il modo di fare e di comportarsi forse di una giovane nonna. L’avevo osservata al di là della strada, al portone della scuola ed avevo avuto la percezione di una serena e semplice vita coronata dall’affetto di un nipotino. Ma poi attraversata la strada, vicino al bar, aveva iniziato la telefonata e tutti i particolari erano diventati diversi, anche perversi. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Sbirciavo con maniacale attenzione ogni centimetro del suo corpo, dai capelli tinti di biondo e arricciati con cura, alla camicetta bianca che lasciava intravedere una lingerie di pizzo, dalle calze di rete fitta sotto una gonna appena sopra il ginocchio, agli stivali neri con la punta allungata ed il tacco moderatamente alto. Era assurdo, ma non c’era nulla che non fosse cambiato ai miei occhi dopo quella telefonata. Un caleidoscopio di sensualità. E mi ero trovato a giudicare. Ma non era neanche così giusto farlo.

Come non era neanche tanto prudente e indifferente lo squadrare le persone nel cercare di costruire la storia della loro vita. Infatti, mentre pagavo alla cassa del bar, mi ero messo ad osservare curioso le altre persone presenti. Tra cui era particolare un terzetto, che tra un bicchiere di grappa alquanto prematuro alle otto del mattino ed il “Corriere dello Sport” sfogliato senza molto interesse, se ne stavano ad oziare senza badare ad orari o persone. Il più anziano, sulla sessantina, aveva un modo dispotico verso gli altri due. Non chiedeva, ordinava. Strano modo di fare. Strano se non interpretato forse maliziosamente, ma neanche troppo tramite le frasi che gli altri due si erano scambiati. Uno magro, dallo sguardo sottile e cattivo, l’altro grande e grosso ma dalla faccia poco intelligente, che parlavano di un furgone caricato nella notte, dell’attesa di qualcuno che lo doveva ritirare. Improvvisamente, poi mi cominciarono ad indicare tra loro con sguardi gradualmente sempre più cattivi. Forse mi ero impicciato troppo. E mentre cercavo un modo per districarmi da quella situazione che stava diventando antipatica, l’avevo vista passare e l’avevo presa come un’ancora di salvezza.

(segue)

 
 
 

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