Con la sua esortazione ad adottare politiche protezioniste per motivi economici, politici ed etici, l’economista Jacques Sapir, critica aspramente il mito della superiorità del libero scambio, mostrando come già storicamente negli anni ‘30, dopo la Grande Crisi, i suoi immensi limiti fossero ben chiari a Keynes, soprattutto dal punto di vista degli effetti sociali. Quello che oggi è sotto i nostri occhi, ovvero la moltiplicazione dei conflitti, l’accumulo crescente di ricchezza nelle mani di pochi, la crisi della democrazia, conferma la lucidità della visione di Keynes e mostra come le politiche protezioniste di Trump e tanti altri siano molto più sensate di quanto la stampa “mainstream” ci voglia far credere. Al contrario, conclude Sapir: è nel protezionismo il nostro futuro. Le recenti dichiarazioni di Donald Trump, e la sua politica di pressione sui grandi gruppi industriali attraverso messaggi inviati via Twitter; ma anche dichiarazioni “molto francesi”, come quelle di Arnaud Montebourg sul “produrre francese” hanno riproposto la questione delle moderne forme di protezionismo. Nel dibattito che si apre oggi intorno alla campagna per eleggere il prossimo Presidente della Repubblica, è chiaro che questo problema occuperà una posizione di primo piano. Un certo numero di candidati dichiarati – o di candidati alla candidatura – hanno preso posizione su questo tema. Ma in realtà, questo dibattito c’è già stato. Nel 1930, dopo la Grande Depressione, un certo numero di economisti sono passati da posizioni tradizionaliste a favore del “libero scambio” verso una visione più protezionista. John Maynard Keynes era uno di questi, e certamente quello che ha esercitato l’influenza più significativa. Può essere utile quindi tornare a questo dibattito, e alla conversione di un uomo che comunque credeva nel libero scambio, per cercare di capire che cosa gli fece cambiare idea.L’importanza del contesto:Il saggio di J.M. Keynes sulla necessità di una Autosufficienza Nazionale, è stato pubblicato nel mese di Giugno 1933 sulla “Yale Review”, quindi perfettamente contemporaneo alla elezione di Franklin Delano Roosevelt alla Presidenza degli Stati Uniti. Questo testo si rivela di lettura stranamente attuale e inquietante. Oggi, come nel 1933, le ragioni per dubitare del libero scambio si accumulano. Gli esperti della Banca Mondiale hanno drasticamente rivisto al ribasso le loro stime sui “guadagni” derivanti dalla liberalizzazione del commercio internazionale, benché siano stati calcolati senza tenere conto dei possibili costi. Allo stesso modo, uno studio della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (United Nations Conference on Trade and Development, UNCTAD) dimostra che il ‘Doha Round‘ dell’Organizzazione mondiale del commercio (Quarta conferenza interministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio, tenuta a Doha nel novembre del 2001) potrebbe costare ai Paesi in via di sviluppo fino a 60 miliardi di dollari, mentre porterebbe loro solo 16 miliardi di guadagni. Lungi dal promuovere lo sviluppo, l’Organizzazione mondiale del commercio potrebbe quindi contribuire alla povertà globale. Perfino gli investimenti diretti esteri, a lungo considerati come una panacea per lo sviluppo, sono ora messi in discussione. I meccanismi di concorrenza cui si affidano molti paesi per cercare di attirarli, hanno evidentemente effetti negativi in materia di protezione sociale e ambientale. In questo contesto, le proposte del Primo Ministro francese Dominique de Villepin sul “patriottismo economico” nell’inverno 2005-2006 non appaiono più come un’aberrazione ideologica. Queste proposte affondano le loro radici in una lunga tradizione di pensiero economico, che è attualmente oggetto di una importante ripresa, sia nelle proposte di diversi esponenti politici francesi (da Marine Le Pen a Jean-Luc Mélenchon, passando per Arnaud Montebourg e la sua campagna sul “made in France“) sia del nuovo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Queste proposte si dimostrano realmente vicine al pensiero di Keynes nel 1933. Probabilmente scritto nelle ultime settimane del 1932, nella produzione di Keynes si posiziona quindi tra due grandi opere: il Treatise on Money e la General Theory, che segna la rottura definitiva di Keynes con il pensiero economico allora dominante e coincide con il punto di svolta nel pensiero dell’autore. Si può considerare che J.M. Keynes degli anni ’20, anche se è perfettamente lucido sui limiti della teoria economica dominante del suo tempo, e questo in particolare per quanto riguarda la moneta, resti un “liberale” nel significato dato a questo termine alla fine del XIX Secolo. La sua radicale evoluzione intellettuale, non inizia prima della fine degli anni ’20, ed è ben lungi dall’essere completata nel 1932-33. Del resto, questo testo è destinato a una rivista americana, che lo pubblicherà solo pochi mesi dopo l’assunzione della carica da parte di Franklin Delano Roosevelt. Keynes quindi non solo scrive in un momento di grave crisi economica e di evoluzione personale, scrive anche per lettori che vivono in mezzo a un’economia che sta crollando e che devono mettere a confronto le loro convinzioni più sacre, soprattutto sulle virtù del libero scambio, con la drammatica realtà della Grande Depressione.Le argomentazioni di Keynes:Le argomentazioni sviluppate da Keynes, meritano la massima attenzione. Bisogna sottolineare che non si limita a discutere la questione delle protezioni tariffarie, ma parla dell’autosufficienza Nazionale, arrivando al limite dell’Autarchia. Un secondo punto importante è che Keynes si concentra sul movimento dei capitali più che su quello delle merci. È dalla questione della internazionalizzazione del capitale che affronta la sua sfida all’internazionalismo economico. L’approccio può sembrare strano, perché il protezionismo è legato principalmente alla questione degli scambi di beni e servizi. In questo testo Keynes non mette in discussione la virtù economica teorica del libero scambio, anche se pensa che si stia rapidamente esaurendo. Ritiene invece che i suoi effetti sociali siano ormai insopportabili. Il cuore del suo argomento è molto vicino alle tesi di Veblen sugli effetti sociali e politici dell’emergere di una classe di capitalisti passivi. Si deve qui notare che si era già sperimentato alla fine del XIX Secolo ed all’inizio del XX Secolo, un processo di accumulo accentuatissimo di ricchezza. Infatti i dati sulla distribuzione di reddito o di ricchezza mostrano come “1%” più ricco della popolazione accumuli una quota maggioritaria del reddito e della ricchezza, una situazione a cui si tende ancora oggi. È nella contrapposizione tra la realtà sociale dei produttori, inseriti all’interno di un contesto nazionale specifico, e la dimensione apolide dei capitalisti (multinazionali) che Keynes identifica la contraddizione principale. Il parere di J.K. Keynes è che ciò la “globalizzazione” non è favorevole alla pace. Questa non può essere garantita se non con un ritorno alle strutture Nazionali. La proliferazione dei conflitti armati e degli interventi militari, a partire dalla fine della guerra fredda, e le tensioni crescenti sempre più violente nell’Unione Europea sembrano dargli tragicamente ragione. La difesa dell’autosufficienza per Keynes non si giustifica solo in nome della pace. Il libero scambio, in particolare la libera circolazione dei capitali, toglie alle Nazioni la libertà delle loro scelte sociali. Per Keynes, è interessante notarlo, il libero scambio col tempo condanna l’esistenza della proprietà privata e impedisce il funzionamento delle istituzioni democratiche. Egli vi vede anche un ostacolo alla nascita della necessaria diversificazione dei percorsi all’interno del capitalismo. Perché Keynes non parla in nome di una rivoluzione anticapitalista ma bensì si pone come difensore dei valori di una società aperta e pluralista. Il suo rifiuto a ridurre "tutto a merce", è critico nei confronti di un processo in cui si delinea un futuro di distruzione finale della cultura umanistica occidentale. Da molte prospettive Keynes si pone allora come il padre spirituale di tutti i movimenti di protesta che oggi sostengono che “il mondo non è una merce”.Come valutare oggi le argomentazioni di Keynes:Oggi sappiamo che l’introduzione di ipotesi realistiche, inverte i risultati dei modelli che dovrebbero “dimostrare” la superiorità del libero scambio. Lo stesso Paul Krugman (Nobel per l'Economia) ammette che l’unica apsetto che possiamo dimostrare è che il libero scambio è meglio della totale assenza di commercio. Ormai è impossibile dimostrare che il libero scambio è migliore del protezionismo, e si può dimostrare invece che quest’ultimo è superiore al libero scambio in molte situazioni. Siamo comunque molto lontani dalle certezze teoriche di Keynes nel 1933. In realtà, se si combina l’introduzione dei concetti delle strutture di preferenza contestualizzate a quella delle asimmetrie informative e dell’incertezza sistemica, si può supporre che sul medio periodo i sistemi chiusi non siano inferiori a quelli in cui c’è libero scambio (ma lo sarebbero senza dubbio se confrontati a sistemi di scambio regolati da un protezionismo messo al servizio di una vera politica industriale).L’introduzione di ipotesi realistiche, fa saltare incontrovertibilmente il quadro teorico Marshalliano al quale Keynes, nel 1932, continua ad aderire. Infatti, è nel 1944/45 che Keynes si sarà liberato dalle catene di questo pensiero economico obsoleto e svilupperà quella che può essere considerata come la base di un’analisi macroeconomica realistica dell’Economia Internazionale. Purtroppo, quando profuse le sue ultime energie nella negoziazione di Bretton Woods, non gli restavano che pochi mesi di vita. Gli avanzamenti teorici recenti, proprio quelli che i sostenitori dell’economia standard liberale rifiutano di riconoscere, confermano le più radicali intuizioni keynesiane. Lo si è già visto per quanto riguarda il concetto di illusione nominale, un aspetto centrale nella teoria keynesiana dell’inflazione e domani lo si vedrà nella teoria del commercio internazionale.L’attualità di Keynes oggi:Siamo di fronte a una triplice esortazione ad abbandonare il libero scambio e adottare politiche protezionistiche in nome di argomenti economici, politici e morali. Economicamente, il libero scambio non è la soluzione migliore e comporta considerevoli rischi di crisi e di accrescimento delle disuguaglianze. Mette in competizione diversi territori non in base alle attività umane che vi sono messe in atto, ma di scelte sociali e fiscali di per sé molto discutibili. La liberalizzazione degli scambi non ha beneficiato i paesi più poveri, come dimostrano gli studi più recenti. Un confronto tra benefìci e costi, in particolare per quanto riguarda il crollo della capacità di investimento pubblico nella sanità e nell’istruzione dovuto al brusco calo delle entrate fiscali, suggerisce che il saldo è negativo. Politicamente, il libero scambio, mette a rischio la democrazia e la libertà di scegliere le proprie istituzioni sociali ed economiche. Dal punto di vista morale, il libero scambio non ha altri obiettivi, che la riduzione di qualsiasi aspetto della vita sociale a merce. Il futuro è quindi nel protezionismo. Quest’ultimo prima si imporrà come mezzo per evitare il dumping sociale ed ecologico di alcuni paesi, prenderà allora la forma di una politica industriale coerente, in cui si cercherà di stimolare lo sviluppo di settori con un ruolo strategico per un progetto di sviluppo. Questo porterà a ridefinire una politica economica globale che potrebbe includere la regolamentazione dei flussi di capitale, al fine di reimpadronirci degli strumenti di sovranità economica, politica e sociale. di Jacques Sapir, 18 Gennaio 2017 (con revisione autore del Blog)
J.M. Keynes “National Self-Sufficiency”; anno 1933
Con la sua esortazione ad adottare politiche protezioniste per motivi economici, politici ed etici, l’economista Jacques Sapir, critica aspramente il mito della superiorità del libero scambio, mostrando come già storicamente negli anni ‘30, dopo la Grande Crisi, i suoi immensi limiti fossero ben chiari a Keynes, soprattutto dal punto di vista degli effetti sociali. Quello che oggi è sotto i nostri occhi, ovvero la moltiplicazione dei conflitti, l’accumulo crescente di ricchezza nelle mani di pochi, la crisi della democrazia, conferma la lucidità della visione di Keynes e mostra come le politiche protezioniste di Trump e tanti altri siano molto più sensate di quanto la stampa “mainstream” ci voglia far credere. Al contrario, conclude Sapir: è nel protezionismo il nostro futuro. Le recenti dichiarazioni di Donald Trump, e la sua politica di pressione sui grandi gruppi industriali attraverso messaggi inviati via Twitter; ma anche dichiarazioni “molto francesi”, come quelle di Arnaud Montebourg sul “produrre francese” hanno riproposto la questione delle moderne forme di protezionismo. Nel dibattito che si apre oggi intorno alla campagna per eleggere il prossimo Presidente della Repubblica, è chiaro che questo problema occuperà una posizione di primo piano. Un certo numero di candidati dichiarati – o di candidati alla candidatura – hanno preso posizione su questo tema. Ma in realtà, questo dibattito c’è già stato. Nel 1930, dopo la Grande Depressione, un certo numero di economisti sono passati da posizioni tradizionaliste a favore del “libero scambio” verso una visione più protezionista. John Maynard Keynes era uno di questi, e certamente quello che ha esercitato l’influenza più significativa. Può essere utile quindi tornare a questo dibattito, e alla conversione di un uomo che comunque credeva nel libero scambio, per cercare di capire che cosa gli fece cambiare idea.L’importanza del contesto:Il saggio di J.M. Keynes sulla necessità di una Autosufficienza Nazionale, è stato pubblicato nel mese di Giugno 1933 sulla “Yale Review”, quindi perfettamente contemporaneo alla elezione di Franklin Delano Roosevelt alla Presidenza degli Stati Uniti. Questo testo si rivela di lettura stranamente attuale e inquietante. Oggi, come nel 1933, le ragioni per dubitare del libero scambio si accumulano. Gli esperti della Banca Mondiale hanno drasticamente rivisto al ribasso le loro stime sui “guadagni” derivanti dalla liberalizzazione del commercio internazionale, benché siano stati calcolati senza tenere conto dei possibili costi. Allo stesso modo, uno studio della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (United Nations Conference on Trade and Development, UNCTAD) dimostra che il ‘Doha Round‘ dell’Organizzazione mondiale del commercio (Quarta conferenza interministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio, tenuta a Doha nel novembre del 2001) potrebbe costare ai Paesi in via di sviluppo fino a 60 miliardi di dollari, mentre porterebbe loro solo 16 miliardi di guadagni. Lungi dal promuovere lo sviluppo, l’Organizzazione mondiale del commercio potrebbe quindi contribuire alla povertà globale. Perfino gli investimenti diretti esteri, a lungo considerati come una panacea per lo sviluppo, sono ora messi in discussione. I meccanismi di concorrenza cui si affidano molti paesi per cercare di attirarli, hanno evidentemente effetti negativi in materia di protezione sociale e ambientale. In questo contesto, le proposte del Primo Ministro francese Dominique de Villepin sul “patriottismo economico” nell’inverno 2005-2006 non appaiono più come un’aberrazione ideologica. Queste proposte affondano le loro radici in una lunga tradizione di pensiero economico, che è attualmente oggetto di una importante ripresa, sia nelle proposte di diversi esponenti politici francesi (da Marine Le Pen a Jean-Luc Mélenchon, passando per Arnaud Montebourg e la sua campagna sul “made in France“) sia del nuovo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Queste proposte si dimostrano realmente vicine al pensiero di Keynes nel 1933. Probabilmente scritto nelle ultime settimane del 1932, nella produzione di Keynes si posiziona quindi tra due grandi opere: il Treatise on Money e la General Theory, che segna la rottura definitiva di Keynes con il pensiero economico allora dominante e coincide con il punto di svolta nel pensiero dell’autore. Si può considerare che J.M. Keynes degli anni ’20, anche se è perfettamente lucido sui limiti della teoria economica dominante del suo tempo, e questo in particolare per quanto riguarda la moneta, resti un “liberale” nel significato dato a questo termine alla fine del XIX Secolo. La sua radicale evoluzione intellettuale, non inizia prima della fine degli anni ’20, ed è ben lungi dall’essere completata nel 1932-33. Del resto, questo testo è destinato a una rivista americana, che lo pubblicherà solo pochi mesi dopo l’assunzione della carica da parte di Franklin Delano Roosevelt. Keynes quindi non solo scrive in un momento di grave crisi economica e di evoluzione personale, scrive anche per lettori che vivono in mezzo a un’economia che sta crollando e che devono mettere a confronto le loro convinzioni più sacre, soprattutto sulle virtù del libero scambio, con la drammatica realtà della Grande Depressione.Le argomentazioni di Keynes:Le argomentazioni sviluppate da Keynes, meritano la massima attenzione. Bisogna sottolineare che non si limita a discutere la questione delle protezioni tariffarie, ma parla dell’autosufficienza Nazionale, arrivando al limite dell’Autarchia. Un secondo punto importante è che Keynes si concentra sul movimento dei capitali più che su quello delle merci. È dalla questione della internazionalizzazione del capitale che affronta la sua sfida all’internazionalismo economico. L’approccio può sembrare strano, perché il protezionismo è legato principalmente alla questione degli scambi di beni e servizi. In questo testo Keynes non mette in discussione la virtù economica teorica del libero scambio, anche se pensa che si stia rapidamente esaurendo. Ritiene invece che i suoi effetti sociali siano ormai insopportabili. Il cuore del suo argomento è molto vicino alle tesi di Veblen sugli effetti sociali e politici dell’emergere di una classe di capitalisti passivi. Si deve qui notare che si era già sperimentato alla fine del XIX Secolo ed all’inizio del XX Secolo, un processo di accumulo accentuatissimo di ricchezza. Infatti i dati sulla distribuzione di reddito o di ricchezza mostrano come “1%” più ricco della popolazione accumuli una quota maggioritaria del reddito e della ricchezza, una situazione a cui si tende ancora oggi. È nella contrapposizione tra la realtà sociale dei produttori, inseriti all’interno di un contesto nazionale specifico, e la dimensione apolide dei capitalisti (multinazionali) che Keynes identifica la contraddizione principale. Il parere di J.K. Keynes è che ciò la “globalizzazione” non è favorevole alla pace. Questa non può essere garantita se non con un ritorno alle strutture Nazionali. La proliferazione dei conflitti armati e degli interventi militari, a partire dalla fine della guerra fredda, e le tensioni crescenti sempre più violente nell’Unione Europea sembrano dargli tragicamente ragione. La difesa dell’autosufficienza per Keynes non si giustifica solo in nome della pace. Il libero scambio, in particolare la libera circolazione dei capitali, toglie alle Nazioni la libertà delle loro scelte sociali. Per Keynes, è interessante notarlo, il libero scambio col tempo condanna l’esistenza della proprietà privata e impedisce il funzionamento delle istituzioni democratiche. Egli vi vede anche un ostacolo alla nascita della necessaria diversificazione dei percorsi all’interno del capitalismo. Perché Keynes non parla in nome di una rivoluzione anticapitalista ma bensì si pone come difensore dei valori di una società aperta e pluralista. Il suo rifiuto a ridurre "tutto a merce", è critico nei confronti di un processo in cui si delinea un futuro di distruzione finale della cultura umanistica occidentale. Da molte prospettive Keynes si pone allora come il padre spirituale di tutti i movimenti di protesta che oggi sostengono che “il mondo non è una merce”.Come valutare oggi le argomentazioni di Keynes:Oggi sappiamo che l’introduzione di ipotesi realistiche, inverte i risultati dei modelli che dovrebbero “dimostrare” la superiorità del libero scambio. Lo stesso Paul Krugman (Nobel per l'Economia) ammette che l’unica apsetto che possiamo dimostrare è che il libero scambio è meglio della totale assenza di commercio. Ormai è impossibile dimostrare che il libero scambio è migliore del protezionismo, e si può dimostrare invece che quest’ultimo è superiore al libero scambio in molte situazioni. Siamo comunque molto lontani dalle certezze teoriche di Keynes nel 1933. In realtà, se si combina l’introduzione dei concetti delle strutture di preferenza contestualizzate a quella delle asimmetrie informative e dell’incertezza sistemica, si può supporre che sul medio periodo i sistemi chiusi non siano inferiori a quelli in cui c’è libero scambio (ma lo sarebbero senza dubbio se confrontati a sistemi di scambio regolati da un protezionismo messo al servizio di una vera politica industriale).L’introduzione di ipotesi realistiche, fa saltare incontrovertibilmente il quadro teorico Marshalliano al quale Keynes, nel 1932, continua ad aderire. Infatti, è nel 1944/45 che Keynes si sarà liberato dalle catene di questo pensiero economico obsoleto e svilupperà quella che può essere considerata come la base di un’analisi macroeconomica realistica dell’Economia Internazionale. Purtroppo, quando profuse le sue ultime energie nella negoziazione di Bretton Woods, non gli restavano che pochi mesi di vita. Gli avanzamenti teorici recenti, proprio quelli che i sostenitori dell’economia standard liberale rifiutano di riconoscere, confermano le più radicali intuizioni keynesiane. Lo si è già visto per quanto riguarda il concetto di illusione nominale, un aspetto centrale nella teoria keynesiana dell’inflazione e domani lo si vedrà nella teoria del commercio internazionale.L’attualità di Keynes oggi:Siamo di fronte a una triplice esortazione ad abbandonare il libero scambio e adottare politiche protezionistiche in nome di argomenti economici, politici e morali. Economicamente, il libero scambio non è la soluzione migliore e comporta considerevoli rischi di crisi e di accrescimento delle disuguaglianze. Mette in competizione diversi territori non in base alle attività umane che vi sono messe in atto, ma di scelte sociali e fiscali di per sé molto discutibili. La liberalizzazione degli scambi non ha beneficiato i paesi più poveri, come dimostrano gli studi più recenti. Un confronto tra benefìci e costi, in particolare per quanto riguarda il crollo della capacità di investimento pubblico nella sanità e nell’istruzione dovuto al brusco calo delle entrate fiscali, suggerisce che il saldo è negativo. Politicamente, il libero scambio, mette a rischio la democrazia e la libertà di scegliere le proprie istituzioni sociali ed economiche. Dal punto di vista morale, il libero scambio non ha altri obiettivi, che la riduzione di qualsiasi aspetto della vita sociale a merce. Il futuro è quindi nel protezionismo. Quest’ultimo prima si imporrà come mezzo per evitare il dumping sociale ed ecologico di alcuni paesi, prenderà allora la forma di una politica industriale coerente, in cui si cercherà di stimolare lo sviluppo di settori con un ruolo strategico per un progetto di sviluppo. Questo porterà a ridefinire una politica economica globale che potrebbe includere la regolamentazione dei flussi di capitale, al fine di reimpadronirci degli strumenti di sovranità economica, politica e sociale. di Jacques Sapir, 18 Gennaio 2017 (con revisione autore del Blog)