MARINA CORRADI
Un amico
racconta di sua nonna e del suoandare, nelle sere di maggio, a dire il Rosario
in cortile con le vicine, dieci donne sedute su una fila di sedie davanti alla
cucina.
«Quanto tempo fa ?», domandi tu, immaginando un ricordo vecchio di
lustri. Ma no, risponde l’amico, il Rosario mia nonna lo dice nel cortile della
sua casa a Lambrate,in queste sere di maggio.Lambrate è quella periferia di
Milano sotto la verticale degli aerei che decollano da Linate.
Ogni tre minuti sopra la testa la prua di un jet che si alza rombando.
Accanto, le sei corsie della Tangenziale gonfie di traffico incolonnato; sotto,
le acque livide del Lambro. Quel quartiere, a vederlo, sembra l’icona grigia di
una modernità senza memoria. E che invece – ancora, o di nuovo – ci si dica il
Rosario nei cortili, ti stupisce. È finito ieri maggio, e, al di là della
celebrazione del Papa a San Pietro, sui giornali di mesemariano non hai letto.
Eppure, tuttavia, bastava entrare in una chiesa qualunque d’Italia in questi giorni
per trovare la sera decine e decine di persone che recitavano l’Ave Maria.
Oppure sgranavano quell’antica catena a casa loro, e nei conventi, negli
ospedali, a bassa voce, con parole da secoli uguali. Il Rosario continua a
essere detto, pianamente, senza clamore, da una massa non piccola, ma
mediaticamente invisibile. I dotti, gli intellettuali guardano con educato
compatimento a chi è fedele alla preghiera più umile, a quel ripetere semplice
e monotono. Già al pregare, di questi tempi, si guarda come a qualcosa di
infantile – non è da uomini moderni inginocchiarsi, e domandare. Ma, poi, la
preghiera delle donne e dei vecchi, quel ridire le stesse parole in una cadenza
regolare scorrendo lenta fra le mani la corona, pare a molti un gesto desueto
in giorni in cuile nostre dita fanno agilmente zapping, mandano sms, digitano
email. («Il Rosario – scrisse Romano Guardini – appartiene al popolo credente
come il lavoro e il pane, ma appena l’uomo cade nell’inquietudine del
ragionamento o della vita moderna, ne perde l’abitudine»).
E però l’abitudine non è perduta.
Vive e si trasmette ancora, e non a pochi, benché sia pubblicamente
'invisibile'. È un filo tenace quasi la corona cui per secoli le nostre donne
si sono aggrappate come a una fune per non precipitare – quando il marito era
al fronte, quando un figlio era malato. Molti di noi ricordano ancora queste
donne col Rosario in mano, simbolo di un affetto silenzioso e paziente, senza
bisogno di troppe ragioni o parole. Come aderendo, nella preghiera a quella
donna in cui Cristo si fece carne – a quella donna fattasi terra perché Dio si
facesse uomo – a un modello diverso dal principio maschileche ci domina:
diverso da quel 'fare, produrre, pianificare il mondo e semmai fabbricarlo da
sé, senza dover niente a nessuno', come ha scritto Joseph Ratzinger. A cosa
serve, sorridono i sapienti, quel mormorare parole neanche proprie, neanche
'spontanee', ma ricalcare invece i Misteri della vita di Cristo e l’Ave Maria,
e invocare 'Regina della Pace', e 'Stella del mattino', in una litania che
all’estraneo sembra una automatica nenia?
Non sanno, i dotti, ciò che è chiaro se ascolti i pellegrini a Lourdes,
o i poveri che dicono il Rosario in una notte africana assediata da una guerra
civile: quelle parole antiche sono insieme invocazione, contemplazione,
speranza. Sono un restare, un riposare dentro il respiro di Dio. Come essere
presi in braccio, bambini, dalla madre.
Stanchi, trovare misericordia. E poi abbracciati, confortati, riprendere
a camminare.
Da Avvenire