tracce di me

Tra mille parole, una si è fatta carne


Parole che nascono, parole che muoiono: tante parole, dalla vita breve, subito bruciate dentro gli eventi, che le rendono superflue, vuote, vecchie d'improvviso. Eppure tutte, come le regine, portano dietro di sé uno strascico, che in qualche modo le rende immortali, sedimentate, evocative. Si vive di parole. La storia degli uomini e delle donne le reca con sé e le offre di volta in volta a coloro che accettano di raccoglierle e di farle strumento per «comunicare», cioè per dire o non-dire ciò che nasce e ciò che muore dentro la vita quotidiana. Ma, parimenti, ci si rende subito conto che «c'è parola e parola»: di volta in volta leggera come il vento o dura come la pietra, dolce come una carezza o crudele come uno schiaffo sulla faccia di colui che viene considerato nemico, mobile come le emozioni che essa suscita, o duratura come il sorgere del sole che non tradisce mai chi l'attende all'aurora. Parole, parole, parole...: - Vi sono parole che vogliono non-dire, nascondere, argomentare, con volute parzialità e unilateralità, parole che vengono taciute per interesse (inclusi gli «interessi superiori», magari con «buone intenzioni», a fin di bene...), per la convenienza di chi parla; parole che vogliono persuadere senza che chi ascolta abbia tutte le informazioni giuste per dare una risposta consapevole e libera. Le élites dominanti, i partiti politici, le chiese, hanno usato spesso nella storia questo tipo di parole per nascondere la verità e ottenere un consenso passivo, senz'anima e senza intelligenza. - Vi sono parole banali, chiacchiere vuote, che cercano di riempire altri vuoti. Parole che contengono messaggi superficiali, generici, futili, detti per mostrarsi e per mostrare. Piccoli idoli, che nascono da una cultura dei «simulacri», per la quale lo "scambio simbolico" tra persone potenzialmente intelligenti è ridotto a mera finzione, a puro gioco formale, a prurito passeggero dei sensi. Molte conversazioni in incontri pubblici e privati, anche in famiglia, con gli amici, e fin dentro le chiese, sono fatte di parole usate come simulacri, come idoli sacralizzati, superificiali, senza vita. - Vi sono parole che dicono troppe cose. Viviamo in una cultura mondiale, con una storia in sviluppo rapidissimo e di elevatissima complessità, nella quale per certe parole ai vecchi significati se ne sono aggiunti molti di nuovi. Si fa fatica ad adoperarle perché gli altri possono capirle in modo diverso dal nostro. Molte parole dell'etica, della spiritualità, della religione, possono essere così: amore, fiducia, libertà, verità, giustizia, compassione, bellezza ecc. E bisogna sempre riuscire a fare chiarezza sui molti significati per mettere a fuoco quello corretto, per intendersi, senza tuttavia voler sopprimere la possibile ricchezza che la vita ha immesso, ha stratificato dentro quella parola, diventata ormai «plurivoca». - Vi sono parole che non riescono ancora a dire. Parole che l'inesperienza, la non-padronanza di linguaggi, di repertori, di conoscenze, non riescono a rendere espressive. Ci sono delle cose, dei problemi, dei vissuti, per i quali non abbiamo «le parole per dirlo», e pure vorremmo. Normalmente chi è esperto, come chi ha potere, è geloso di quelle parole, non di rado le scoraggia, le svalorizza, o le fa tacere, invece di mettersi al servizio di chi cerca di appropriarsi di parole nuove, più profonde, capaci di cogliere «l'anima» e «la memoria» del popolo e della sua storia. - Vi sono invece, parole che non vogliono dire tutto, per sobrietà, che lasciano libertà a chi ascolta di andar avanti per conto proprio e si trasformano con chi le ascolta, perché vogliono trasmettere una passione che possa diventare «con-passione». «Esse sono pensate e gettate come semi per coloro che sono disposti ad accoglierle nello stesso spirito, come semi, che devono morire, mutare e germogliare. Parole di testimonianza dello spirito, religioso o non-religioso che sia, parole che si offrono e non si impongono. Parole che non dicono tutto, non vogliono avvolgere in una argomentazione, che in quanto tale spesso non ha bisogno di coinvolgimento personale ma solo di analisi e di obbedienza logica. Mostrano un cambiamento possibile, un allargamento dell'esperienza, che però dev'essere creato da chi ascolta, dalla sua presa di parola e dalla sua esperienza, di senso e di relazione». (J. De Sandre, in Servitium, n. 89, pp. 89-96). Come queste parole è anche «la Parola (che) è diventata carne», secondo lo splendido prologo del Vangelo di Giovanni. Essa non si impone con la forza, non convince con la grandezza, ma si presenta nella pienezza di una umanità, così da diventare fratello e sorella di ogni uomo e di ogni donna che accettino di dargli ospitalità e di camminare nella storia in sua compagnia. A Natale la troviamo depositata in una mangiatoia e il suo nome è Gesù di Nazareth, «l'uomo per gli altri».MARCELLO FARINA docente di filosofia alla facolta di lettere e filosofia di Trento.tratto da l'Adige del 24 dicembre 2005