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Riflessioni


LA COSCIENZA? NON È DEFINIBILE BIOLOGICAMENTE di CARLO OSSOLALuigi Aurigemma ( Napoli 1923 – Parigi 2007) è stato tra i fondatori della Società francese di psicologia analitica e ha curato la monumentale edizione italiana delle Opere di C. G. Jung ( 19 voll. in 24 tomi) presso l’editore Boringhieri ( 1969¬2007). Presso lo stesso editore appare ora, postumo, Il risveglio della coscienza, libro che merita la più attenta lettura. Il fulcro è nel saggio, sin qui inedito, Qualche riflessione sulla morte, la cui tesi centrale propone: « per una qualche parte almeno, la psiche, cioè la coscienza, sfugge o può sfuggire al tempo della vita» .  Si tratta di una affermazione più radicale di quella del cogito, che – da Isidoro di Siviglia ai moralisti del Seicento – palpita, vive e muore, nei 'precordi': « I precordi sono zone vicine al cuore nelle quali affluiscono i sensi; e sono detti precordi poiché in essi è il principio del cuore e del pensiero [principium cordis et cogitationis] » (Etymologiae, XI, 1, 119). Sappiamo che Descartes – celebri le lettere al Meyssonnier del 29 gennaio 1640 e al Mersenne del 30 luglio 1640 – pone fine a quel binomio millenario, ponendo la sede dell’anima e dei pensieri nel conarion, o ' ghiandola pineale': « La mia opinione, dunque, è che questa ghiandola è la principale sede dell’anima e il luogo dove si fanno tutti i nostri pensieri» .  Da allora è avanzata, sino ai recenti tripudi di Jean- Pierre Changeux, una mappatura neopositivista del cervello che non ha fatto che sviluppare le premesse cartesiane: « Per ciò che concerne le specie che si conservano nella memoria, non immagino che esse siano cosa diversa dalle pieghe che si conservano in questa carta, dopo che è stata piegata una volta » ( ibid.).  Ma la coscienza, mostra mirabilmente Aurigemma, è più che la memoria e più che il pensiero: è, in certo modo, il lascito che riceviamo e che trasmettiamo, della nostra responsabilità di uomini: « Mi rendo conto che il disfacimento psicofisico che mi attende dissolverà certo quello che, all’atto della mia morte, sarà rimasto della mia vita, ma che questo non coinvolgerà ciò che della coscienza si sarà fatto un po’ più visibile attraverso di me. […] Avrà avuto il senso di aver contribuito, per quanto ho potuto, a liberare la coscienza dall’eccessiva embricazione con la vita».  La coscienza, insomma, non è definibile biologicamente; è quella consapevolezza che rende l’uomo, in ogni istante, responsabile dell’umanità intera: nihil humani a me alienum puto, diceva già la saggezza latina. Oggi il conoscere è una somma di descrizioni, rese più acuminate dagli strumenti della tecnologia; ma una descrizione anche la più dettagliata non è mai coscienza. « Il ' peso' infinito della coscienza » , scrive Aurigemma, è questo continuo entrare in noi, in ogni fibra, dell’umanità, delle voci che cantano amore, gridano morte, implorano pace. È la voce dei nostri cari, ai quali con il tempo andiamo sempre più rassomigliando, sopra le differenze in cui ci eravamo cullati da giovani; è la voce delle generazioni future, alle quali stiamo rubando aria e acqua.  Un tempo il ' credere' ebbe a diffidare della psicoanalisi; essa è invece, per la sua capacità inesauribile di ascolto, di cura nella parola, un custode prezioso della ' coscienza', mentre intorno a noi i nuovi attori della ' ghiandola pineale' stanno sistemando i posti ( bugigattoli o poltroncine che siano) dell’anima nel teatro di marionette che è divenuto il nostro cervello.  Meglio sognare, con Aurigemma, la « grandiosa visione di un universo di individualità responsabili, prese nel processo infinitamente lento di realizzazione della coscienza » : Mirando il punto / a cui tutti li tempi son presenti » ( Paradiso, XVII, 17- 18).