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TEATRO: Marat-Sade


La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat rappresentati dai ricoverati del manicomio di Charenton sotto la direzione del marchese De Sade.Il Marat – Sade, sotto la guida di Corrado Licheri, sarà replicato domani presso il Teatro centrale di Carbonia con inizio alle ore 10.00.di  Gabriele Iezzoni, 30 gennaio 2009Un titolo lungo per un’opera ricchissima sotto l’aspetto stilistico e contenutivo ed estremamente ambiziosa da interpretare. Una prova dura, quindi, per attori, sceneggiatori, regista e tecnici, ma affrontata con grande maestria e con quella professionalità che il teatro di Albeschida ha acquisito in questi anni di intensa attività. Portata sulla scena dalla Compagnia che ormai vanta due lustri di attività con la regia di Corrado Licheri e le musiche originali di Angelina Figus l’opera in sé non ha bisogno di lunghe presentazioni. Senza dubbio un riferimento obbligato per la cultura degli anni settanta, è – come tutte le vere opere d’arte - ancora più sottilmente suggestiva oggi, quando la sua lettura ha bisogno di una interpretazione magistrale e di una esplicitazione che ne sappia rendere il valore, come si dice con una espressione abusata, ma efficace, attuale.Il Marat-Sade, come presto venne conosciuta l’opera dopo la grande affermazione della successiva traduzione inglese, curata dallo stesso autore, è – forse – il capolavoro di Peter Weiss.Scritto nel 1963 fu portato, per la prima volta sulle scene nella Berlino Ovest del 1964. L’anno successivo il regista Peter Brook ne allestì una trasposizone filmica che è ancora riconosciuta come il punto di partenza di qualsiasi interpretazione dell’originale Marat-Sade di Weiss.L’azione inizia il 13 luglio 1808, quando gli echi rivoluzionari si sono già spenti e si sviluppa lungo una sceneggiatura innovativa nella quale la rappresentazione è il pretesto per la messa in scena del dramma principale abilmente incastonato dentro il più piccolo dramma della rappresentazione in cui il Marchese De Sade, internato nel manicomio di Charenton, si improvvisa sceneggiatore e regista degli ultimi giorni del rivoluzionario Jean-Paul Marat, detto l'Amico del popolo e morto ad opera della girondina Charlotte Corday D'Armont.Come in tutte le opere di Weiss il pubblico è “costretto” nella nella condizione di giudice e critico anziché di passivo spettatore.Lasciando da parte i dettagli scenici, per concertrarci sul contenuto vivo di quest’opera nata come tutte quelle di Weiss da una riflessione storiografica, che comunque trascende – come tutta l’arte – il tempo e la contingenza dalla quale trae forma e materia possiamo individuare alcune coordinate teoretiche che mettono in luce i fondamenti e le premesse di quest’opera così carica di suggestioni diverse e convergenti. Uno dei principali riferimenti non può che essere reperito presso la Scuola di Francoforte. Il concetto di ragione progressiva e calcolante di Adorno permette di illuminare almeno un aspetto fondamentale dell’opera di Weiss.La ragione calcolante, secondo appunto la particolare connotazione di Adorno, conduce al fallimento dei suoi stessi presupposti di progresso, perché incontra – lungo il suo percorso – l’assurdo nella forma di quel paradosso per il quale le sue stesse affermazioni, raggiunte con i mezzi della logica deduttiva, diventano la negazione dei presupposti teoretici che hanno animato gli intenti innovatori iniziali.La lettura dell’opera di Weiss, alla luce del pensiero di Adorno, permette di approfondire questi aspetti delicati della complessa tematica del Marat - Sade.Weiss parte dall’assunto che non esista un significato per il quale la ragione possa dirsi pura in senso kantiano oppure storicamente orientata al bene in senso illuministico. Essa piuttosto deve sempre ritenersi intenzionata ovvero rivolta ad un particolare obiettivo, ispirata ad un progetto più o meno esplicito o animata da aspirazioni estranee a quello che una filosofia “ingenua” definirebbe come l’ambito teoretico. In altri termini non esiste un criterio dell’oggettività per il quale l’uso della ragione o gli strumenti che ad esso ineriscono si possano dire oggettivi: anche quando, anzi, sembra suggerire il Marat-Sade, soprattuto quando si presentano come il frutto di istanze universali o quando agitano la bandiera del valore assoluto proprio in quanto universalmente condivisibile.Marat, in tal senso, è il rappresentante della ragione strumentale e adorniana. Essa progetta in vista di un fine e si veste di una bandiera. Il suo strumento privilegiato è la valutazione logica e deduttiva. La sua attenzione è rivolta al risultato. La contemporaneità ha imparato ormai da tempo parole quali successo, conquista, efficacia, raggiungimento del risultato. Queste espressioni hanno assunto rilevanza con la rivoluzione industriale e la rivoluzione francese le ha – per cosi dire – fissate nella loro valenza politica e sociale.Parallelamente all’affermarsi dell’importanza della ragione illuministica abbiamo assistito al processo per il quale l’etica e la condotta umana si sono ristrette alla semplice soggettività. Quando non è un fatto di natura giuridica, la condotta umana e la decisione cadono nell’arbitrio, l’etica si identifica con la morale e con il costume, il suo problema diventa ozioso di fronte all’intelletto che domina sulla natura e la plasma secondo le esigenze del momento. La stessa posizione del problema etico diventa impossibile perché, da un punto di vista strettamente razionale, non è suscettibile di una formalizzazione logico-deduttiva o quantitativa. La dimensione individuale è trattenuta quanto più possibile in quella sociale perché il criterio razionale chiede uniformità e prevedibilità. Le pretese del potere, che nei secoli passati erano accompagnate dall’imposizione e dalla vessazione, si fanno istanze della ragione: si fanno valere con la persuasione e trasformano la costanza della legge fisica nella normalità della condotta. L’uguaglianza di Marat diventa normalizzazione ed il suo ideale di libertà si sostituisce all’imperio del tiranno. Le esigenze della normalizzazione impongono una rigida separazione di ciò che è normale da ciò che non lo è. L’istituzione del manicomio è – per così dire -  la cifra della modernità. L’umiliazione e la somministrazione calcolata del dolore vivono all’ombra della scienza medica.Ecco quindi che la figura di De Sade – nella sua follia erotomaniaca e nel suo individualismo esasperato – è l’erede di quell’eroe sconfitto del dramma neo romantico come lo abbiamo conosciuto dal Paradise Lost di Milton. Il suo nichilismo ed il suo individualismo radicale intesi come la negazione delle categorie della ragione positivistica sono una disperata affermazione dell’irriducibilità dell’individuo alla sua dimensione sociale, politica ed economica. Le illusioni di Marat si spengono sulle contraddizioni che emergono dal suo sistema sociale nel quale essere e dover essere, comunità e persona, natura e spirito si conciliano in un disegno unico. De sade rivela queste contraddizioni che lungi dall’essere state mediate dalla ragione sono state solo dissimulate e ricondotte all’errore del singolo che giudica al di fuori della verità scientifica e razionale. Così l’apatia della natura è, per De Sade cosa ovvia che proviene dal suo essere disilluso rispetto all’esistenza. Ma questa affermazione non fa semplicemente parte del contraddittorio fra i protagonisti. Con essa emerge l’inconciliabilità fra il materialismo ateo ed il causalismo dei quali Marat si fa portavoce come rappresentante del pensiero illuministico e l’attribuzione di una qualche intenzionalità o di un semplice finalismo alla natura stessa. È cosi l’ottimismo di Marat si fa più insostenibile del radicalismo sadiano. E, tuttavia, proprio un’affermazione di Marat (“l’apatia della natura è la tua personale apatia”) mette in luce la dinamica implicita nella nuova struttura di potere di cui Marat si fa promotore: l’errore della collettività diventa la malattia del singolo.Ma lo stesso De Sade, chiuso nel suo solipsismo non sa dare una risposta alla domanda fondamentale che è il filo conduttore del dramma di Weiss e che non è la scelta fra una delle due posizioni portate sulla scena dai protagonisti, ma il reperimento di una terza via che non sia il nichilismo sadiano e nemmeno l’inganno della società borghese e capitalistica. Ma così non potrebbe essere. Come già Brecht, Weiss coinvolge il pubblico nella condizione di giudice e critico anziché di passivo spettatore e – una volta liquidata la Rivoluzione nelle sue contraddizioni ci restituisce il nostro mondo attuale processato e smascherato.Seguendo attentamente la narrazione sembra di poter concludere in maniera apparentemente paradossale che non è il sonno della ragione a generare mostri, ma la sua iperattività. Verrebbe da chiederci che cosa, dunque, potrebbe metterci al riparo da una nuova catastrofe come una guerra mondiale o un’altra shoa dal momento che la ragione, come ha storicamente dimostrato, è ingannevole di fronte alle scelte cruciali, ma nello stesso tempo si è imposta, nelle sue propaggini scientifiche e tecnologiche, come unico strumento del pensiero e anzi ha preteso l’identificazione con esso. La risposta è niente, a meno di non “pensare l’impensabile” ovvero un pensiero che si emancipa dalla ragione, ma questo Weiss non dice, perché – del resto – il fine del dramma teatrale, ma forse di tutta l’arte, è quello di far sorgere le domande che ancora non sono state poste, non quello di rispondere alle domande già formulate perché a questo scopo sono sufficienti le altre facoltà umane.Il Marat – Sade, sotto la guida di Corrado Licheri sarà replicato il prossimo 5 febbraio presso il Teatro centrale di Carbonia con inizio alle ore 10.00.