Il Caffè della Posta

C'era una volta l'Italiano_8


 C’era una volta … l’ItalianoConsiderazioni (un po’) amaredi Nino L. Bagnoli(8) Scegliendo fior da fiore«Incinta» - Si sente, sempiù di frequente, usare la parola «incinta» come se fosse “invariabile”: «C’erano all’ingresso dell’Ospedale tre donne incinta », «tutte le donne incinta hanno questa caratteristica». Grave errore: «incinta» in italiano è un “normale” aggettivo femminile, e come tale ha il suo bravo plurale «incinte». «Paro paro / para para» - Le due locuzioni, usate nel senso di interamente, completamente, alla lettera, senza indugio ”, sono “dialettali”, e quindi scorrette. La locuzione giusta, che è avverbiale, e, quindi, invariabile, è «pari pari».  «Italiane e italiani» (con le varianti “Elettrici e elettori”, “Spettatrici e spettatori” ecc..) – Tipico esempio di malintesa «correttezza politica», e, quindi, di ipocrisia, di piaggeria, di ruffianeria. Ne sono campioni Bertinotti e la Gruber e molti altri politici o conduttori televisivi. Ai quali è d’obbligo ricordare che il plurale maschile, per la grammatica italiana, assorbe anche il plurale femminile. Perciò: ruffiani e ignoranti. Qualcuno si è giustificando citando il “modo di dire” «al colto e all’inclita», tanto caro alle vecchie compagnie teatrali di giro che con quella frase si rivolgevano al pubblico. Ma costoro dovrebbero conoscere l’esatta, completa frase che tali teatranti usavano e che era: «Al colto pubblico e all'inclita guarnigione», non agli “uomini” e alle “donne”.   «Piuttosto che» - Da un po’ di tempo a questa parte, sta prendendo piede un altro vulnus alla Lingua. Si è cominciato ad usare la locuzione «piuttosto che» come se equi­valesse a «oppure» (disgiuntiva), mentre equivale ad «anziché» (avversativa). perché non mette sullo stesso piano i due (o più) termini da congiungere, ma esprime una netta preferenza per il primo rispetto al secondo. Prendiamo due esempi. Se dico «amo il cinema, oppure il teatro», intendo mettere il cinema e il teatro sullo stesso piano nella mia considerazione; se, invece dico «amo il cinema piuttosto che il teatro», intendo manifestare una netta preferenza per il cinema rispetto al teatro. Ora che confusioni del genere escano dalla bocca dal sentore d’aglio di un oste romano, passi, ma udirlo da una bocca turgida e rossa (ritenuta di “gran valore”, forse perché è costata milioni in “botulino” e lavoro del chirurgo), questo è francamente troppo. Una fugace visita al vocabolario, una volta ogni tanto, non guasterebbe.                                                                     «E non» - Questo errore [“e non” invece di “e no”] è piuttosto antico ed è frutto di superficialità e di ignoranza: «no» è un avverbio «olofrastico», ossia, da solo, corrisponde a un'intera frase; «non», invece, non ha quella caratteristica, infatti non si usa mai da solo, deve precedere sempre un verbo, un sostantivo, o un aggettivo. Nessuno (a parte il milione di asini che riescono a conseguire anche una laurea) direbbe o scriverebbe mai «ci vedi o non?», «ci sei stato o non?», perché l’uso del «non» costringe a ripetere la prima parte della frase: «ci sei stato o non ci sei stato?».Basterebbe, del resto, ricordare il titolo del noto romanzo di Elio Vittorini «Uomini e no». Già, basterebbe. Ma bisognerebbe almeno averlo visto, anche solo in vetrina. «Soli tre euro» - Ė, con la variante del numero degli Euri, ormai sulla bocca di tutti i sostituti di Vanna Marchi (momentaneamente indisponibile per “biechi” motivi di Giustizia), ossia di tutti i “tromboni” e le “trombette” che ci assillano da mane a sera con le offerte in Tivvù di ogni genere di prodotti (materassi, pentole, poltrone, yogurt miracolosi, attrezzature sportive e via elencando); certo, la colpa non è loro, essi ripetono –pappagallescamente- il copione imposto dai «creativi» della pubblicità. E allora, diamo la colpa a questi ultimi. Perché qualcuno, quella colpa, dovrà pure assumersela. «Solo», in grammatica, può essere sia aggettivo che avverbio. Come aggettivo, si accorda in genere e numero con il sostantivo cui si accompagna; come avverbio è invariabile; l’aggettivo significa “senza compagnia”, l’avverbio vuol dire “soltanto”. Ma come distinguere l’una categoria grammaticale dall’altra? Il «senso» basta e avanza. Possono 130 Euri essere “senza compagnia”? Invece possono essere “soltanto”, “appena”. A parte l’evidente, truffaldina ipocrisia, nel caso di specie, la categoria giusta è l’avverbio. Quindi si dovrà dire, magari vergognandosi un po’, «solo 130 Euri».«da quando sono piccolo» - Questo «refuso mentale», comparso tempo fa nel linguaggio «popolare incolto», sta, complice la solita Tivvù, dilagando con accelerazione progressiva. Ė un classico esempio di mancato rispetto del rapporto cronologico tra due tempi, quello in cui si parla e quello cui ci si riferisce. Ė chiaro che il parlante non è più «piccolo» nel momento in cui si esprime, quindi non dovrebbe usare un “tempo” (il presente indicativo) che indica «contemporaneità», ma un tempo “passato” (un questo caso l’imperfetto indicativo) che indica «anteriorità». La corretta costruzione deve essere «da quando ero piccolo». Ma uno psicologo potrebbe anche vedere, nella «smarronata», i sintomi di una grave forma di immaturità del soggetto. Il poveretto sbaglia il «tempo» del verbo perché, nell’inconscio, sa di non essere cresciuto, di essere rimasto ancora «piccolo». Ma questa è solo una cattiveria, non una «invasione di campo» nella psicologia. Chiaro, amica psicologa? (8 – Continua)