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C'era una volta lItaliano-15

Post n°124 pubblicato il 30 Settembre 2011 da tino.pos

C’era una volta … l’Italiano

Considerazioni (un po’) amare

di Nino L. Bagnoli

(15)

A gratis – È una locuzione prettamente romanesca (aggratis [Belli] o aggratise [Zanazzo] ) rapidamente diffusasi, poi, in tutta l’Italia, a discapito del corretto «gratis», ai tempi dei film ambientati a Roma (anni ’50 e ‘6o) , in virtù della popolarità di interpreti come Sordi, Fabrizi, Magnani. Ma, finché il vernacolo è usato nell’ambito «letterario», nulla da recriminare. in una poesia, in un racconto, in un testo teatrale il dialetto è al suo giusto posto, ha la stessa dignità della Lingua. Ma chi lo inserisca, invece, in un contesto in lingua italiana, commette un errore imperdonabile, soprattutto se ciò accade in televisione perché è noto il ruolo di cassa di risonanza della Tivvù. L’errore si sparge con rapidità supersonica in tutta la penisola e lo sciagurato che la mette in circolazione, sia esso un “creativo” o un “testimonial” commette un crimine grave, anche se il lassismo delle autorità nella tutela della lingua nazionale, lo lascerà impunito.

Millilitro – È la millesima parte del Litro, e l’accento tonico cade sulla seconda /i/: millìlitro, e non sulla terza: millilìtro, come si sente di continuo in Tivvù.

Stage – Questo sostantivo, con la stessa grafia, è presente sia in inglese che in francese; ma la pronuncia e il significato sono differenti. Il vocabolo francese si pronuncia [staʒ] e significa, secondo il Dizionario Robert: 1) “periodo di studi pratici imposto ai candidati ad alcune professioni” (quello che noi chiamiamo “tirocinio”); 2) “periodo di formazione o di perfezionamento”. È, insomma, quello che i nostri giovani, compresi quelli che li frequentano, chiamano “steig” (pronunciando la “g” finale con suono palatale, quello, per intenderci, di “gioco”, “giorno”), per l’ignoranza dominante tra studenti e tra docenti, tutti vittime dell’ormai inveterata abitudine di pronunciare “all’inglese” tutte –o quasi- le parole straniere. Lo “stage” inglese [steidʒ] ha diversi significati, ma, di certo, tra essi non ci sono né tirocinio né corso di perfezionamento.
Il significato primario è “palcoscenico” (ricordate il “back stage” di cui si sente tanto parlare in ambienti teatrali ma, soprattutto, cinematografici?); l’altro significato è “tappa” nel senso di distanza tra un posto e l’altro dove ci si ferma durante un viaggio, una gara ecc.

Ridurre in poltiglia (un pezzo di carta strappato) [Giudice Marzano («Forum»)] – Come il solito, “Forum” ci delizia con qualche svarione linguistico. In una cosiddetta “causa”, uno dei due contendenti accusava l’altro di aver stracciato un foglio di carta riducendolo «in poltiglia». Nella lingua italiana, strappare ha diversi significati, ma, nel caso di un foglio di carta, ne ha uno inequivoco: «Stracciare, lacerare, rompere in più parti materiale poco resistente: “strappare un foglio, una lettera, un lenzuolo”. Un simile gesto, come è chiaro, riduce il foglio in pezzi, in brandelli, non in «poltiglia». La poltiglia, secondo il vocabolario, è un «Composto piuttosto liquido di sostanze, anche commestibili, farinose o in polvere: “una poltiglia di crusca; preparare la poltiglia per l'impiastro”». Ora, la carta, semplicemente “strappata” non ga alcunché di “liquido”. Fin qui il discorso riguarda uno dei “litiganti”, cioè quello che ha (smarronando) esposto i fatti. E non c’è alcuna legge (purtroppo) che sanzioni i seviziatori della Lingua. Il grave è venuto fuori dopo, quando il Giudice-arbitro, nella “decisione”, ha fatto proprio lo stesso errore, dimostrando altrettanta superficialità.

“Fammi parlare anche a me”(frequente a “Forum” e in altri programmi televisivi). Altro esempio di scarsa conoscenza delle regole grammaticali e sintattiche che risale alla cattiva istruzione elementare, o al persistere, nei discorsi in lingua, di “relitti dialettali” di cui si fa fatica a liberarsi.  La locuzione corretta è, dunque: «Fai parlare anche me» È lo stesso errore che si commette, ormai da tempo, e sempre in televisione quando in ballo c’è il verbo «colpire»: “quello che a me colpisce”  (Telese, “In onda”) o, peggio, “quello che a me mi colpisce” (la adenoidea Luisella Costamagna [In onda-26-6-11]), “la cosa che a me colpisce (Fassino –Porta a Porta – 16 dic. 2010), “a me ha molto colpito” (Rita Dalla Chiesa, “Forum”). Oltre all’inutile iterazione del pronome (una volta i maestri seri ammonivano gli allievi a non dire mai “a me mi”), nelle frasi sopra riportate l’errore grave è un altro, ed è nella costruzione della proposizione. «Colpire» è verbo transitivo, e, come tale, deve essere seguito da un complemento oggetto (nel caso, me) e mai da un complemento di termine (nel caso, a me). La causa di questo diffuso errore, è da ricercarsi nella cattiva istruzione ricevuta nelle scuole elementari (e successive) dove gli scolari non han ben digerito la doppia funzione del pronome di prima persona singolare «mi», quella di complemento oggetto (me): non mi ha visto (non ha visto me); mi verrà a trovare domani (verrà a trovare me domani); lasciami! (lascia me); e quella di complemento di termine (a me): mi ha raccontato delle storie (ha raccontato delle storie a me); mi sembra che non sia giusto (a me sembra che non sia giusto); dammi una mano (dai una mano a me).
Che si può fare per “redimere” tutta questa congerie di smarronanti? Poco o niente. Il danno grave è che costoro sono giornalisti, conduttori televisivi, star della comunicazione, quindi potenziali “untori”,  potenziali responsabili della diffusione di questo fenomeno negativo. Avvertirli e sperare che si emendino? Con la supponenza che li caratterizza, c’è poco da illudersi.
            

“In attesa che partino  i nuovi provvedimenti …” – La frase, con lo strafalcione grammaticale è stata pronunciata dal Ministro Sacconi nella puntata di Porta a Porta del 25 0ttobre 2010. Dobbiamo offendere i lettori spiegando loro che la forma giusta del verbo era “partano”? Speriamo di no. Però non possiamo fare a meno di chiederci come si possa aver conseguito la licenza elementare, poi il diploma, poi la laurea in Giurisprudenza con simili “debiti” scolastici.

Di tutto di più Almeno una cosa la Rai l’ha azzeccata: lo slogan  pubblicitario che da qualche anno martella i nostri occhi e i nostri orecchi. Il “creativo” questa volta ha fatto centro. La locuzione è, ormai, entrata nel “lessico familiare” di tutti gli sprovveduti utenti che la “sparano” ad ogni piè sospinto, col solito pappagallismo becero e ignorante. Che cosa vuol dire “di tutto di più”? Bisticcio a parte, tutto è “tutto”, non ci può essere  qualcosa che si possa aggiungere al “tutto”. Certo, si sa che i “creativi” della pubblicità non guardano troppo per il sottile agli aspetti grammaticali, ma che li si possa (o debba) imitare impunemente, questo proprio no.

Quant’altro Questo mostriciattolo imperversa ormai da anni, specie in Tivvù, ed è diventato un vero e proprio intercalare, usato al posto di “eccetera”, “e così via” e simili. Si tratta di due pronomi e aggettivi che hanno una loro specifica funzione. Messi insieme non significano nulla a meno che non siano seguiti da un verbo (al congiuntivo): ”e quant’altro tu possa dire” , “e quant’altro io sia in grado di fare”.

“stante alle … (Livia Turco, in “Omnibus” - 22-nov. 2010) - «stante» («stanti», al plurale), è il participio presente del verbo «stare»; usato con valore di preposizione causale, nel significato dia causa di, per la presenza o in considerazione di”, regge il complemento oggetto e non il complemento di termine, quindi si deve dire «stante le» e non «stante alle»: “stante la presente carestia”; “stante il cattivo tempo”; “stanti le pessime condizioni del mare”; “stanti le numerose richieste”, eccetera. Un Corso di recupero sarebbe gradito.

 15) Continua

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