Il volo dell'anima

Posto n. 56


Non passava giorno che non sentissi la gente intorno a me, i pendolari, quale ero anche io, lamentarsi di quel duplice rito quotidiano, di quell'avanti e indietro che scandiva monotonamente la loro vita.Potevo anche ascoltarli con pazienza, fingere comprensione, annoverarmi nel gruppo degli scontenti, ma nel mio cuore non era così.In realtà non riuscivo a capirli.Nella mia vita tutto era sempre stato scandito con straordinaria e quasi sovrumana precisione, senza che niente fosse mai lasciato al caso: tutto calcolato, tutto puntigliosamente definito e previsto nei minimi particolari.Dopotutto il mio mestiere -orologiaio di precisione, come amavo definirmi- mi aveva spinto ad accettare regole ferree cui attenermi scrupolosamente ed ora tutto, a cominciare dalle piccole cose, era divenuto per me inno ad un tic-tac naturale, omaggio ad un ritmo preciso, inesorabile, eterno.Anche il consueto breve viaggio in treno che da trentatré anni segnava l'inizio e la fine di ogni mia giornata lavorativa, era diventato parte di me, delle mie abitudini di vita.Ogni giorno, alla stessa ora, salivo con calma sulla terza carrozza e mi dirigevo sicuro verso la "mia" poltrona, la numero 56.Forse perché era troppo vicina alla porta o forse perché da quella posizione guardando fuori si vedeva il mondo correre indietro, risucchiato via vorticosamente, fatto sta che nessuno andava mai a sedervisi, nessuno tranne me e quindi ormai io la consideravo proprio tutta mia.Mi piaceva affondare nel velluto verde e morbido, lasciarmi cullare dal rumore ritmico delle ruote che schiacciavano gli snodi dei binari... tic-tac...uno-due...andata e ritorno...Era confortevole abbandonarsi al peregrinaggio dei pensieri che fantasiosi e rapidi mi attraversavano gli occhi...Mi sembrava, quando sonnecchiavo, attento però al più piccolo rumore o vibrazione o cigolio della carrozza, che l'intero treno partecipasse allo svolgersi delle mie riflessioni, che fosse attento ad ogni mio più recondito atto intellettivo, che penetrasse la mia volontà e ne riducesse lo spessore.Quasi che fosse capace di assorbirmi in sé, di farmi parte di sé, di corrodere il mio vero "io" per impadronirsene.E di fatto, quando mi alzavo per scendere, mi giravo sempre a guardare la mia poltrona.Mi sembrava allora di vedere distintamente, disegnati in chiaro-scuro su di essa, i contorni del mio corpo, quasi un feticcio, ad assicurare la continua presenza di una parte di me su quel treno...