Il volo dell'anima

Da bambina


La casa di mia nonna era a metà di una salita che si percorreva senza faticare troppo, su una strada ritmata da ippocastani, che noi bambini scambiavamo per castagni, vedendone i ricci verdi. Sul marciapiede di fronte, c'era l'ingresso della scuola elementare che frequentavo. A pensarci bene, non ho mai capito se quella casa mi piacesse, la ignorassi, o addirittura la temessi. Ricordo solo quanto mi sembrasse strana.Per un bambino, è strano e misterioso tutto ciò che si discosta dal quotidiano, dalla confidenza con il proprio mondo di certezze. Perciò strana era la porta di legno dipinto, strano il campanello che funzionava facendo girare una chiavetta, strana la disposizione delle camere da letto, separate dalla cucina da un ballatoio, che a sera si percorreva a passo veloce, per non sentire freddo. Strano l'arredo e strana anche la luce che nel trascorrere del giorno, cambiava stanza, inondando la cucina, poi la sala, infine le camere da letto.Le giravo tutte, quelle stanze, per scoprire anche il minimo mistero nascosto. E quando ero fortunata, non trovavo spiegazioni ai miei perché.Il giardino, talmente grande da essere per metà orto e frutteto e per metà campo a maggese, ospitava, da un lato, una struttura solida, alta quasi quanto i due piani della casa, con abbaini dai vetri opachi di polvere e troppo vicini al tetto per poter lasciar passare luce sufficiente: il capannone.Era quello il mio posto preferito, quello che mi permetteva di esercitare il mio coraggio e che mi faceva dimenticare che una bambina non si deve mai sporcare i vestiti.Aperta la porta di legno, sconnessa e piena di schegge, due scalini irregolari, a tradimento, facevano piombare bruscamente in una dimensione surreale. La luce intensa del sole all'esterno, rendeva l'enorme spazio silenzioso, ancora più buio di un sogno oscuro, più freddo di un soffio d'inverno e più spaventoso di una minaccia d'abbandono. Per quanti sforzi facessi, non riuscivo a vedere nulla. Per quanto tenessi tutti i sensi all'erta, non venivo a capo della sensazione angosciante di aver perso l'orientamento in un viaggio proibito. Sentivo solo gli odori: di polvere d'anni, di legno ammuffito, di ferro corroso. E di me, della mia paura.In fondo, pensavo, mi basterebbe gridare per essere soccorsa all'istante.Ma io non volevo essere soccorsa.Procedevo a piccoli passi, cauti e misurati, scansando col piede tutto quello che poteva ostacolare il mio cammino, un coccio di vetro, un pezzo di legno e sperando di non sentire lo zampettio rapido di famelici animali.Sapevo qual era il mio obiettivo e sapevo che dovevo avanzare fino ad un'altro uscio che si chiudeva a malapena con una serratura a bilancia. E che mi lasciava entrare cigolando pesantemente.La forgia era lì, cuore nascosto che pulsava di incandescenze e arrossava al minimo movimento dell'aria intorno, calda come il desiderio, proibita come il peccato.Un braciere squadrato pieno di tizzoni accesi, ammucchiati come vulcano in miniatura. E da una parte, una manovella, collegata con un mantice a frizione.Prendo a girare la manovella, sono lì per quello, veloce, sempre più veloce. Il mantice urla roco, soffiando sotto i carboni che si spaccano, crepitano, scintillano e lanciano parabole di luce tutt'attorno. Lo sfrigolìo prende il ritmo della mia mano e della mia volontà, mentre un alito bollente forza il buio tutt'attorno.Sembra di aver evocato l'inferno. E sono io ad alimentare quella crudele catarsi.Ma quando mi balena in mente che l'inferno dev'essere proprio così, eterno purificarsi dai peccati di una breve vita, consumarsi in perenne bruciare fino ad essere solo luce, stacco la mano, piena di vergogna per qualcosa che non sembra giusto nemmeno a me, che sono solo una bambina....