Camunia

Gianfranco Miglio


Di Alessandro Campi
Sbaglia il poeta: la palma della crudeltà spetta all’agosto, mese torrido e distratto, quindi sconsigliato alle morti eccellenti ed inadatto alle commemorazioni. La morte di Gianfranco Miglio, avvenuta lo scorso l’11 agosto, è stata accompagnata da “coccodrilli” frettolosi, che ne hanno ricordato, più che la scienza e la dottrina, diffuse a piene mani in oltre trent’anni di insegnamento presso la Cattolica di Milano e in un centinaio tra libri saggi ed articoli, certi aspetti, tardivi e secondari, della sua esistenza e del suo modo di essere: l’appassionata militanza nella Lega bossiana (durata appena quattro anni), la schiettezza del linguaggio, talune civetterie nel vestire, un certo compiacimento luciferino nel mostrarsi al pubblico ed il gusto per la provocazione politico-intellettuale. E’ rimasto in ombra, nei commenti riportati dalla stampa, l’essenziale, ciò per cui Milgio, da qui in avanti, merita di essere ricordato: l’essere stato uno dei maggiori studiosi italiani di politica del Novecento, un organizzatore culturale di prima grandezza, un bibliofilo e bibliografo di rara competenza come ben sa chi ha frequentato la sua biblioteca di Como (un monumento di architettura e di erudizione), insomma un uomo di scienza, espressione di un accademismo rigoroso ed esigente, in Italia ormai scomparso. Come ogni pensatore di rango è stato un solitario, una personalità controcorrente, difficilmente classificabile secondo i consueti confini disciplinari. Presentato abitualmente come politologo (ma egli preferiva dirsi “scienziato della politica”), durante la sua carriera universitaria si è in realtà cimentato con le discipline più varie: dalla storia delle dottrine politiche alle relazioni internazionali, dal diritto costituzionale alla storia delle istituzioni politiche, dalla dottrina dello Stato alla scienza dell’amministrazione, dalla polemologia alla storia economica. Simile, in ciò, ai grandi teorici tedeschi su cui si era formato e dei quali si considerava, per stile e gusti intellettuali, un epigono: Ferdinand Tönnies, Otto von Gierke, Lorenz von Stein, Friedrich Meinecke, Max Weber… Allievo del giurista Giorgio Balladori Pallieri e dello storico Alessandro Passarin d’Entrèves, entrambi cattolici e liberali, il suo esordio scientifico è avvenuto, a cavaliere del secondo conflitto mondiale, con alcune ricerche sulle origini e gli sviluppi della comunità internazionale, sulla formazione del diritto pubblico europeo, sulla dottrina della “guerra giusta” e sui caratteri propri delle relazioni intrastatuali. Sono seguiti, a partire dai primi anni Cinquanta, studi pionieristici ed innovativi, di taglio storico e tipologico, sulla pubblica amministrazione e sulla burocrazia, vale a dire su ciò che costituisce la reale ossatura di ogni Stato minimamente efficiente. Il 1964 è stato l’anno di una prolusione accademica rimasta celebre, nella quale Miglio diagnosticava lo scostamento della politica reale italiana dal modello di un autentico Stato di diritto rappresentativo-elettivo e teorizzava l’alternarsi ciclico tra regimi parlamentari puri e regimi autoritari a conduzione carismatica: una provocazione che segnò la sua rottura con la classe dirigente democristiana dell’epoca e l’inizio della sua fama di eccentrico e di guastafeste. Gli anni Settanta lo hanno invece visto impegnarsi in una serrata critica alle debolezze ed ai difetti dell’ordinamento costituzionale italiano: partitocrazia, parlamentarismo integrale, deficit decisionale. Il decennio successivo è stato, probabilmente, quello della sua maturità scientifica, durante il quale ha pubblicato studi come sempre originali sulle origini e sulla crisi (ai suoi occhi irreversibile) dello Stato moderno, sui rapporti tra guerra e politica, sul concetto di rappresentanza, sui diversi assetti della convivenza internazionale, sulle radici dell’obbligazione politica, sui fenomeni clientelari, sulla classe politica. Gli anni Novanta, infine, spesi all’insegna della passione, lo hanno visto protagonista del dibattito sul federalismo, tema al quale ha consacrato tutte le sue ultime energie intellettuali. Si è detto che è stato anche un grande organizzatore ed artefice culturale. Sua, nei primi anni Cinquanta, l’idea di dar vita all’Istituto per la Scienza dell’amministrazione pubblica, e, nel 1961, quella di istituire la Fondazione italiana per la storia amministrativa: entrambi fucine di studiosi di rango e di spezzoni importanti della classe dirigente nazionale. Suo nel 1968 – in collaborazione, tra gli altri, con Giovanni Sartori, Giuseppe Maranini e Beniamino Andreatta – il progetto di riforma dell’ordinamento delle Facoltà di Scienze Politiche. Sua, nei primi anni Settanta, la scelta di pubblicare una raccolta antologica, Le categorie del ‘politico’ di Carl Schmitt, che ha segnato l’inizio di una nuova stagione della cultura italiana: un’iniziativa editoriale che produsse scombussolamento soprattutto tra i marxisti e che, come egli soleva dire divertito, il suo amico Bobbio non gli ha mai perdonato. Sua, a partire dal 1983, la direzione di una collana unica quale “Arcana Imperii”, oltre trenta corposi volumi dedicati ai grandi classici del pensiero politico-giuridico soprattutto europeo. Suo il coordinamento scientifico del mitico Gruppo di Milano, dal quale, tra il 1980 ed il 1983, è scaturito il più organico e rigoroso progetto di revisione costituzionale prodotto nel nostro Paese, tanto ambizioso quanto inadatto alle lentezze barocche della politica italiana. Sua, per concludere, a metà degli anni Novanta, l’iniziativa della Fondazione per un’Italia federale, laboratorio scientifico per la definizione di un’autentica e moderna dottrina federalista. Miglio è stato, e sempre si è considerato, uno scienziato. Come studioso di politica e costituzionalista apparteneva ad una famiglia di pensiero assai particolare: quella del “realismo politico”. Egli è stato, per l’esattezza, l’ultimo grande esponente della scuola realista italiana, degno erede, nel secondo dopoguerra, di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, come questi ultimi interessato a scoprire le leggi e le “regolarità” (termine, quest’ultimo, propriamente migliano) che sorreggono l’agire politico degli uomini ed a smascherare e rendere esplicito l’intreccio di opzioni di valori e di interessi che sta al fondo di ogni ideologia o credenza politica e che costituisce la vera molla della lotta per il potere condotta dai gruppi umani organizzati. Come ogni realista che si rispetti, il potere, cioè gli uomini politici, lo ha più temuto che amato: destino comune a chi scelga di alzare il velo dell’ipocrisia, rifiuti la retorica delle belle parole e accetti di osservare la politica quale essa è, da sempre. La sua lezione più grande si riassume nel convincimento che le istituzioni politiche – comprese, ovviamente, quelle che oggi abbiamo – non sono eterne, ma sottoposte ad un ciclo storico vitale e quindi ad una perenne trasformazione. Cultore degli studi storici e profondo conoscitore degli assetti istituzionali antichi moderni e contemporanei, Miglio ha avuto lo sguardo sempre rivolto al futuro: quali saranno le forme di organizzazione della politica non tra dieci, ma tra cento o mille anni? Critico verso la storia ed il costume nazionale, non è stato tuttavia un anti-italiano: il “caso italiano” lo considerava tutto sommato marginale rispetto alla vicenda millenaria della tradizione politica occidentale. Oltre che forzatamente solitario, il suo percorso scientifico-culturale è stato discontinuo e tutt’altro che lineare. Come ogni studioso di rango, Miglio non temeva di mettersi in discussione e di rivedere le sue posizioni. Dopo essere stato un teorico del decisionismo e della sovranità, negli ultimi anni, convintosi dell’ineluttabile declino del modello politico dello Stato-nazione, aveva abbracciato posizioni al limite dell’anarchismo politico ed era divenuto un fautore ad oltranza del pluralismo politico-istituzionale. Segno ulteriore di grandezza ed onestà, rispetto ad un costume medio intellettuale che teme la revisione e l’auto-analisi. Ma nemmeno temeva le contaminazioni e la polemica, gli incontri ed i confronti, la ricerca di nuovi terreni d’indagine e di discussione: sempre curioso, e sicurissimo di sé, non ha mancato di incrociare cavallerescamente le armi con gli esponenti della sinistra post-marxista, di fustigare un certo quietismo cattolico, di cogliere in fallo i federalisti dell’ultima ora, di laureare con tesi sul terrorismo degli estremisti di sinistra, di interessarsi alle posizioni della “nuova destra”, di mettere in contraddizioni certi liberali troppo sicuri di sé, di stigmatizzare il conformismo intellettuale dei suoi colleghi. La sua fama presso il grande pubblico è derivata dal suo impegno nella politica attiva, maturato tuttavia solo dopo aver abbandonato la cattedra e l’insegnamento. Senatore per tre legislature, dall’esperienza parlamentare Miglio ha in effetti ricavato delusioni ed incomprensioni, peraltro largamente prevedibili alla luce dei suoi stessi insegnamenti. Perché dunque ha accettato di correre il rischio? Dopo anni di studi e di tentativi, andati a vuoto, di formare una classe dirigente all’altezza delle sfide della politica contemporanea – il più organico fu quello condotto a fianco di Cefis, per conto del quale diresse per alcuni anni la scuola di formazione dell’Eni –, aveva intravisto, nel quadro scaturito dalla crisi della Prima repubblica, la possibilità, l’ultima ai suoi occhi, di un reale cambiamento della struttura statuale italiana, in direzione di un avanzato ordinamento federalista basato sul patto volontario tra libere comunità territoriali: solo nell’elezione dei “governatori” regionali aveva tuttavia visto il primo segnale di una concreta trasformazione del sistema politico italiano. Deluso ma pur sempre indomabile, negli ultimissimi anni Miglio aveva cominciato a profilare, tra le rovine di uno Stato giunto ormai alla sua fase storicamente terminale, l’abbozzo di un nuovo modello politico policentrico nel segno del mercato, del privato e del libero contratto, simile a quello delle città-stato mercantili nord-germaniche del Seicento. Il suo ultimo libro, purtroppo mai scritto, avrebbe voluto intitolarlo L’Europa degli Stati contro l’Europa delle città: il sogno di un visionario o la lucida anticipazione di una fertile mente scientifica Nell’attesa che il suo pensiero divenga oggetto di studi e di approfondimenti, si può solo ricordare le parole che egli stesso scrisse in memoriam del suo amato Carl Schmitt e che bene si attagliano anche alla sua avventura intellettuale: “i traguardi scientifici da lui raggiunti, proprio perché corrispondenti a altrettanti alti problemi, costituiscono porte aperte sul futuro della conoscenza scientifica. Quasi ogni sua teoria suggerisce nuove ricerche, nuove ipotesi da verificare, nuove avventure del pensiero”. A chi, nel corso degli anni, gli è stato vicino e ne ha meditato gli insegnamenti, spetta adesso l’onere di rendere il dopo-Miglio più fecondo e vitale dell’età su cui egli ha esercitato, in maniera libera e creativa, la sua straordinaria intelligenza.Tratto da: http://www.alessandrocampi.it/Miglio.htm