Caos ed Essere

Una vita sotto controllo


Il controllo mi fotte. Ingoio i pensieri strozzati nel loro regolare fluire dai limiti di una possibilità scremata della sua valenza intima, spogliata del suo referente astratto, e resa puro significante che sussegue lettere come fossero inganni incastonati come perle fasulle nell’etere delle mie domande. Non esiste oltre ne altrove, e la scelta diventa solamente una roulette truccata da un magnete che attira il risultato nel grembo della sua ipocrisia, riducendo la multidirezionalità della possibilità ad un unico senso obbligato che io, come gregge dei miei impulsi, necessariamente imbocco, continuando il gioco al massacro col quale tento di regolarizzare l’ansia. Ieri, avvolto quasi nell’adeguatezza di me stesso, ho visto bambini correre a perdifiato. Donarsi al caos ed al piacere di schizzare da un punto qualsiasi verso una tangente scelta dall’istinto dei piedi, e correre, correre, come se tutta la loro vita, tutta la loro gioia, in quell’istante fosse il semplice concedersi al respiro del vento, e l’unico scopo sovrapporre i passi sull’asfalto della spensieratezza. Folli, di quella follia quasi animale di chi, privo di qualsiasi condizionamento, tocca con immediatezza le proprie sensazioni, senza filtri graffiati che ne ovattano il suono, ed il tatto. Sui loro visi ho sovrapposto il mio volto di troppo tempo fa, depolarizzando il sorriso e sovrapponendogli lo sguardo spento e l’incedere contenuto e sorvegliato di chi non ha mai conosciuto la libertà. Mi chiedo se sono nato triste, o probabilmente lo sono diventato con eccessiva fretta, isolato nel sogno intangibile del mio autismo a oltranza. Una vita sotto controllo, portato ai confini estremi della paralisi, quasi fino a diventare invisibile per evitare la mortificazione del giudizio, quello stesso giudizio che, divenuto autoinflitto, abita il tribunale della mia inquisizione, saturando le carceri di fantasmi con i quali far compagnia ai frammenti inesplosi e inesplorati. Ricordo un giorno in piscina, è passato ormai qualche anno da allora, in piedi sull’orlo sdrucciolevole della vasca ad osservare il mio riflesso con gli occhi austeri e superbi di chi guarda dall’alto  un limite inviolabile, disprezzandolo. Paura, fottutissima paura di tuffarmi, accoppiarmi con la mia immagine, e perdere il controllo sul mio corpo stabile sulle proprie gambe, come se quel breve salto nel vuoto potesse mettere all’istante in discussione il possesso di me col quale avevo riequilibrato la mia esistenza, frustrandone completamente l’estemporaneità.  Quel cloro, quell’acqua, quello specchio denso, un muro di cemento ceruleo sul quale sbattere la vergogna della mia diversità, uscendo ancora una volta sconfitto nello scontro con tutto ciò che di più recondito ed atavico alberga nelle regioni tremolanti dell’inconscio. Fiato in sordina e palpebre serrate, ad isolare fuori da questo eone ogni contatto con la provvisorietà fenomenica del reale, solo musica senza suono in una dimensione parallela della quale essere energia…