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Cronaca di una farfalla in lutto Beniamino Biondi

Post n°168 pubblicato il 06 Novembre 2011 da thallullah

Intervista a Beniamino Biondi, autore di "Cronaca di una farfalla in lutto"




di Carina Spurio

“Cronaca di una farfalla in lutto” è il titolo del suo ultimo libro che raccoglie scritti sul Nuovo Cinema Giapponese. Da dove nasce l’idea del titolo?
 


In realtà Cronaca di una farfalla in lutto è il titolo di un breve film sperimentale di Shuji Terayama, un autore di cui mi sono occupato nel mio ultimo libro (Giappone Underground. Il cinema sperimentale degli anni ’60 e ’70, ndr). Ma al di là del suo riferimento concreto, questo titolo ha assunto un valore simbolico in quanto ho tentato di fare la cronaca di un cinema in lutto. La farfalla, anche in riferimento all’effetto farfalla, che non è altro che una parte della Teoria del Caos per cui anche il battito d’ali di un piccolo insetto può provocare disastri anche dall’altra parte del pianeta, si confonde e si maschera col cinema. Un cinema d’urto, atroce e radicale, il cinema giapponese degli anni ’60, che oggi contempla il lutto della sua fine, la sua memoria che non ha saputo resistere al consumo, la sua sostanziale marginalità in un universo che ha fagocitato il senso della differenza.

Il Nuovo Cinema Giapponese sembra iniziare dagli anni ’50, dopo la pubblicazione dei romanzi di Ishihara Shintaro (Scrittore e politico giapponese), parte dei quali, vengono adattati per il grande schermo e nei quali, si visualizza una gioventù inedita, spregiudicata...

Esatto. Siamo negli anni di Gioventù Bruciata di Nick Ray e de Il Selvaggio di Benedek, insomma gli anni ’50, e come per miracolo il cinema giapponese racconta quello stesso malessere, in qualche caso addirittura lo precorre, pur entro termini assai differenti, generando un fenomeno di costume e la riprovazione sociale di un intero paese che crolla sotto i miti della sua stessa grandezza imperiale. Non è secondario, poi, che tutto questo accada per il tramite della letteratura; nel romanzo, del resto, la contaminazione fra tradizione e modernità si attesta ai primi del ‘900 con l’opera di Ryunosuke Akutagawa e prosegue con risultati inquietanti per tutto il dopoguerra.

Nel suo libro, sia nella premessa che nella quarta di copertina si legge: “Il libro è composto da uno sguardo critico su una serie di autori che, ognuno a modo loro e col proprio percorso, hanno contribuito ad affermare una sostanziale politica della creazione artistica nel segno del culto della forma.” … 

Come chiarisco nel breve testo cui Lei si riferisce, il libro non è un’analisi organica e storicizzata del fenomeno del Nuovo Cinema degli anni 50’ e ’60, ma piuttosto una raccolta di profili critici di alcuni autori che mi hanno interessato e che, in una visione retrospettiva e d’insieme, costituiscono il corpo fondamentale di una rivoluzione linguistica che ha agito organizzando in maniera non convenzionale il rapporto fra le immagini al cinema. Il Giappone come impero dei segni, per impiegare un’acuta ma non del tutto corretta definizione di Roland Barthes, a mio parere rileva quell’attitudine iconica della cultura orientale che nel cinema ha trovato una sua definizione ossessivamente geometrica – pure laddove si tratta di dare ordine al caos – che chiamo culto della forma. Il punto di non ritorno della forma finisce con l’essere il suo contenuto autentico, la sua sublimazione. Un regista come Yoshishige Yoshida, di cui mi sono occupato in un altro mio volume (Eros + Massacro. Il cinema di Yoshishige Yoshida, prossima uscita, ndr), ha radicalizzato sino al limite questa esperienza segnica convertendola in una sua complessa poetica di opposizione tra rarefazione e rigore materico. 

Il primo dei 15 autori da lei tratteggiati è Ko Nakahira (1926-1978) colui che cambia completamente le caratteristiche del cinema tradizionale. Nelle sue pellicole scorrono i conflitti psicologici, l’irrazionalismo omicida, le paranoie, quasi e sicuramente, con l’intento di generare scompenso nello spettatore, abituato ai languori edulcorati dei vecchi film, persuasivi certo, ma ancorati ad una logica ormai sorpassata …

Il cinema di Ko Nakahira ha oggi un valore meramente filologico in quanto a lui si deve il primo film che inaugura la nuova stagione del cinema giapponese del dopoguerra. Un film senza precedenti, lodato da quei giovani critici che poi sarebbero diventati i maestri della nouvelle vague nipponica, fra tutti Nagisa Oshima, e che purtroppo rimarrà un episodio isolato nella parabola complessivamente anonima del suo autore. Ma per un felice paradosso, il valore filologico assurge a valore simbolico poiché quel film condensa e comprende temi e sviluppi che apparterranno alla generazione successiva dei cineasti d’autore. Anche nel rapporto col cinema americano,l’opera di Ko Nakahira si segnala per un’interpretazione assai differente del fenomeno del cinico ribellismo della gioventù non facendone un semplice atteggiamento esistenziale, che tutto sommato fa salva la società e le sue norme acquisiste, ma cogliendo la concatenazione d’effetto tra il dato politico e il dato comportamentale, dunque anticipando di molto i discorsi sul condizionamento sociale e sulla relazione fra storia e identità personale. Il Giappone, del resto, ha scontato il fortissimo trauma della bomba atomica, dunque ha vissuto nell’angoscia dolorosissima dell’estinzione di massa, del progetto di un nulla ontologico. 

Sulla scena cinematografica esplode la meteora giovanile preda di una nuova esigenza in contrapposizione con scene caratterizzate da forti drammi sociali come per forzare la mano verso un’interpretazione virata all’eccesso della società, rappresentando la primordiale pulsione di violenza nell’animo umano e l’imporsi costante e crudele del mondo adulto nei confronti dell’anarchico orizzonte adolescenziale fino al cambio di paradigma degli anni ‘80 …

La rappresentazione di un Giappone arcaico ha ceduto il posto all’immagine di un paese nervoso, irrisolto, dimidiato fra tendenze contrapposte; un’immagine che il nuovo cinema ha veicolato in modo sublime e trasgressivo. Tuttavia, il fondamentale ritualismo di quella cultura non viene affatto alienato dai nuovi cineasti ma viene risemantizzato quale condizione di una nuova sensibilità che lo adopera come strumento di una visione del mondo pessimistica ed essenzialmente fondata sulla rappresentazione del quotidiano come labirinto di riti che nascondono la cieca violenza dell’istinto e dello spirito primordiale arcaico. 

Nel 1956 Susumu Hani e il suo rapporto con il mondo dell’infanzia … 

Susumu Hani è uno dei cineasti più interessanti nel panorama del rinnovamento degli anni ’60. Come ha sostenuto il critico Donald Richie, Hani è il più nuovo cinema di tutti. L’unico autore davvero indipendente nel sistema della major nipponiche, l’unico ad avere esplorato territori inconsueti e sotto il profilo esistenziale (l’infanzia) e sotto il profilo geografica (l’Africa, l’America Latina, la Sardegna). Hani è forse il maggiore documentarista del Giappone, o quantomeno il primo ad avere coniugato senso artistico e rigore di documentazione umana. In Italia, se volessimo trovare un cineasta simile dovremmo pensare al siciliano Vittorio De Seta. A Susumu Hani si deve, poi, un bellissimo e controverso film sull’adolescenza che è un capolavoro di stile e di analisi sociale; mi riferisco a Primo amore, versione infernale (1968), su una sceneggiatura di Shuji Terayama, opera che irrompe con prepotente genialità nel ’68 giapponese usando il sesso come metafora politica e facendo frutto dell’esperienza del documentario e del genere del pinku eiga. 

Qual è uno dei 15 cineasti ai quale si sente particolarmente attratto?

Direi proprio Susumu Hani o Hiroshi Teshigahara, famoso in Occidente anche per il suo La donna di sabbia (1964) che vinse un premio a Cannes. Ma il mio autore, nel libro, è Akio Jissoji, cineasta sconosciuto che quasi nessuno ha voluto includere tra i maestri del nuovo cinema a causa di una carriera altalenante che lo ha visto autore di un serissimo cinema di pensiero e insieme di opere minori e biecamente commerciali. Eppure i suoi primi film, provocatori nel contenuto e inquietanti nella loro sperimentazione stilistica, sono tra le cose più interessanti del cinema giapponese, soprattutto in riferimento a Mujo (1970) che si ispira manifestamente al principio buddista dell’impermanenza, un concetto che fonda e sostiene l’estetica giapponese e di fatto tutto il suo cinema.

Cosa ha voluto comunicare ai suoi lettori attraverso “l’interpretazione radicale dell’immagine come luogo del visibile”?

Parlando di immagine come luogo del visibile si attesta una verità di natura fotografica cui sfuggono le componenti metonimiche del cinema come arte. Sulla necessità del luogo del visibile, l’interpretazione radicale del nuovo cinema equivale ad un rovesciamento dello statuto filologico di quella sua stessa necessità, dunque ad un’attitudine al simbolico, all’occulto, al metaverbale e al metafotografico.

Le immagini contengono il potere di conservare se stesse nel futuro bloccando la realtà …

Le immagini non contengono altro che la loro assenza di vita, in quanto non sono che sempre immagini di qualcosa che è già accaduto, trascorso, passato. Il cinema non è altro che un processo di conservazione della morte.

Lei è poeta e saggista, contemporaneamente, si occupa di teatro e cinema: come nasce la sua passione per il Nuovo Cinema Giapponese?

Credo si tratti semplicemente di affinità elettive. Ad ogni modo, volendo tentare un’anamnesi culturale, il mio primo interesse verso il Giappone sorge per effetto dell’amore verso gli scrittori di quel lontano paese. Akutagawa, soprattutto, poi Abe e Mishima (autori in qualche modo tutti legati al cinema, nel caso di Abe addirittura in maniera organica). Da lì un approfondimento verso la narrativa meno nota in Occidente, l’attrazione per lo Shintoismo e il Buddismo (come filosofie morali e non come pratica quotidiana, come accade emulativamente e in modo improprio), e l’attitudine primigenia verso un cinema formalista e trasgressivamente rigoroso – dunque ossimorico - com’è appunto quello del Giappone. 

Che rapporto ha con il Cinema Italiano?

Un rapporto intenso, soprattutto per autori come Pasolini e Antonioni, per fare due nomi. Col cinema attuale il rapporto è invece assai distante e ai limiti dell’indifferenza. 

Un regista a cui si ispira?

Citarle un solo nome equivarrebbe a far troppo grave torto ai non citati, tuttavia mi viene fatto di dirle che molto autori hanno pesato, e molto, nel mio percorso: Rainer Werner Fassbinder, Ingmar Bergman - che ho personalmente conosciuto in Svezia – Glauber Rocha, Russ Meyer, Jean-Marie Straub, Carlos Saura, Jerzy Skolimowski, Koji Wakamatsu, e alcuni altri. 

Il Cinema è un lavoro molto duro che non tutti sono in grado di fare …

Oramai, per la maggior parte, il cinema è un cinema di consumo destinato non ad un pubblico di individui critici e consapevoli ma ad una massa di consumatori ingordi e incoscienti di qualunque valore culturale. La dimostrazione di ciò è proprio la massiccia presenza di multisala all’interno dei centri commerciali, dunque la parificazione simbolica tra il cinema e un qualunque altro bene di consumo pomeridiano. A complemento di ciò, e per suo effetto, il cinema è opera di chi sa fare impresa di se stesso, capitalizzando il consumo e minimizzando l’impegno intellettuale. Gli autori sono ai margini e vivono solamente in cinematografie minori o di frontiera. Pensiamo a Sharunas Bartas in Lituania, a certo cinema africano o latinoamericano. Essendomi occupato di cinema messicano in un mio recente libro (Messico! Cinema e rivoluzione, ndr) ho avuto modo di vedere un film geniale dal titolo Sangre (2005), regia di Amat Escalante. Una radiografia desolata della precarizzazione dei sentimenti umani. In Italia non se ne è saputo nulla. 

Come addetto ai lavori e come spettatore, come vede l’attuale situazione cinematografica nel nostro paese?

Il cinema italiano non mi interessa; non mi attrae il suo minimalismo familista né la cauta critica sociale di certo cinema orrendamente socialdemocratico. Trovo assai mediocre il cinema di Moretti e di Garrone, sono fuori dal coro e con severità anche rispetto alle opere di Crialese. Mi interessano le esperienze apparentemente minori come il cinema di Ciprì e Maresco, Michelangelo Frammartino, gli indipendenti di valore che sono molti e coprono l’intero arco temporale del cinema italiano (in proposito, ho di recente presentato uno straordinario mediometraggio di un intellettuale agrigentino, Diego Romeo, dal titolo Informazioni Sensoriali (1979), un’opera sperimentale che anticipa la crisi del politico attraverso un discorso sulla malattia mentale oggi straordinariamente moderno nei suoi più complessi precipitati simbolici). 

L’ultimo libro che ha letto …

I lettori si distinguono sostanzialmente in due categorie: chi legge un solo libro per volta, chi ne legge tanti. Io appartengo alla seconda. Tra i libri appena terminati un romanzo di John Updike, un volume di poesie di Durs Grunbein, tutto il teatro di Bulgakov, i corsi al Collège de France di Michel Foucault, un volume di critica letteraria sul romanzo inglese del novecento. E cose sparse di cinema per i miei studi.

Qualche anteprima sui suoi progetti futuri?

E’ appena uscito per i tipi de Il Foglio, mio editore di fiducia, un lungo saggio sul cinema sperimentale giapponese dal titolo Giappone Underground. Nei prossimi mesi saranno pubblicati un volume monografico sul cinema di Yoshishige Yoshida e un testo sulla nouvelle vague greca dal titolo Prometeo in seconda persona. Mi ero già occupato di Grecia col mio primo volumetto di cinema su Nikos Koundouros e sono molto fiero del risultato di questo nuovo libro, il primo in Italia ad affrontare una cinematografia immensa e sconosciuta come quella greca, che, essendo una cinematografia povera, non interessa nessuno. Per un siciliano come me, nato e cresciuto alla Valle dei Templi, le ragioni di orgoglio si fanno ancora maggiori. Il libro cui sto lavorando, invece, è la monografia di un altro giapponese, Yasuzo Masumura, ed avrà per titolo Giganti e giocattoli.

Nasce ad Agrigento, che rapporto ha con la sua città?

Come tutti i rapporti d’amore è una relazione conflittuale. Ho vissuto per alcuni anni fuori ma non ho mai perduto la malinconia della Sicilia. Non sono affatto riconciliato con Agrigento e spero di non esserlo mai; è il solo modo per amarla davvero con rabbia e devozione. 

Quale domanda avrebbe desiderato le venisse posta?

Lei pone una scelta e, di conseguenza, pone anche una condizione. Solitamente le interviste ai critici di cinema si concludono con una domanda banalissima che lei, con intelligenza e garbo, ha evitato di porre: si chiede quale sia il film più importante della vita. Mi autoinfliggo questa domanda solamente perché mi mette nelle condizioni di citare un film che quasi nessuno conosce di un autore invece piuttosto noto; parlo di Illuminazione (1972) del polacco Krzysztof Zanussi. In questo caso il valore è del tutto emotivo e privato, ma è certo il film della mia vita.

 
 
 
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