Creato da ciapessoni.sandro il 21/02/2010

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G. d'ANNUNZIO - L' IGNOTA - Seguito notizie

Post n°245 pubblicato il 13 Maggio 2014 da ciapessoni.sandro

 

 GABRIELE D’ANNUNZIO e l’IGNOTA

Dalle carte segrete di Luisa Baccara, trovate di recente al Vittoriale, dietro una doppia paretina nell’appartamento personale della pianista-segretaria del Comandante, è emersa una lettera di D’Annunzio, vergata a matita su foglietti nella preziosa carta di Fabriano, pieni di correzioni, grafia larga a righe molto distanziate le une dalle altre, tipiche del “monòcolo”, in data 1 gennaio 1938, a pochi mesi dunque dalla morte, senza l’indicazione del destinatario, tranne l’accenno in alto, siglato con inchiostro rosso “All’ignota”. Ma sull’autenticità della stessa lettera, non sono sorti dubbi presso gli specialisti, accorsi in massa presso l’importante ritrovamento. Si tratta, in pratica, di una delle ultime tra le infinite epistole vergate in modo compulsivo dallo scrittore abruzzese, specie durante gli ultimi anni del suo soggiorno a Gardone. A fianco della lunga e strana missiva, un breve biglietto, sempre a matita, firmato in alto col nome di Luisa, diretto alla governante dell’eremo, Emilie Mazoyer, chiamata da D’Annunzio Aélis, lettera non completata e dunque mai spedita. Forse un ripensamento, un impulso, poi trattenuto e rientrato, a coinvolgere la ‘badante’ rivale, da parte della Vestale privilegiata dal Vate.

***

Oh creatura, creatura mia! Oh creatura ignota a me e a te stessa, forse! Grazie di esistere. Oh mia pantera minuta e densa, oh mia fanciulla misterica ed errabonda. Ti invoco e ti lancio queste parole straziate di delusione perché sei mancata all’appuntamento promesso. T’ho aspettata in riva al molo tutta la notte, senza più i miei levrieri, che del resto non ci sono più, senza nemmeno la scorta che mi protegge e mi logora, la Aélis e la Luisa cerbere, fedeli e assillanti. Solo e teso verso la tua pelle che m’ha sconvolto tutto, non appena l’ho scorta rilucere sfiorando l’acqua del lago. Perché hai tradito la mia fiducia? Cosa temi da un povero vecchio sfinito e finito? E’ Ariel che grida verso te, non più il principe di Montenevoso. Per merito tuo, il gonfalon selvaggio s’è di nuovo, per arcano prodigio, rizzato in tutta la sua possanza, e questa volta non ho dovuto ricorrere alla polvere magica, alla polvere folle, alle “mattonelle” in arrivo dai Parti lontani, dalla Persia favolosa e portentosa. E lo scheletro avvilito s’è ricoperto di carne rossa di desiderio. No, stavolta, è bastato gustare la agilità con cui eri discesa dalla barca, e la curva del tallone infantile ma gravido di torsioni e prese d’amore, perché la smania e il furore sono ripresi intatti, colla violenza d’un tempo. Ho camminato così a lungo, su e giù per la stanza silente, covando il letto deserto e pregustando i nostri viluppi, i nostri grappoli di ossa e di palpiti. Anche ora, anche ora, fanciulla ignota, anche ora ti sto colla mente penetrando fin al midollo, e ti sbuccio, e ti sfilo tutta, e ti premo fino al cuore e ti vuoto tutta quanta e tu sbianchi e hai paura. Ma bisogna che il piede giri verso l’alto nel modo mirato in barca, se vuoi che io sia in grado ancora di portare a compimento il cimento notturno. No, non devi temere di me, fanciulla alata. Sono troppo prisco, abbi fede. Vedi che mi umilio davanti a te, dopo tutto il male che ho fatto a voi portatrici del profumo della vita, voi che ho incensato e onorato col mio corpo, lungo tutta questa infinita, interminabile esistenza. Perché son vissuto tanto, e sembra che non mi decida mai a morire. Forse sono eterno, a volte mi dico. Purché non rimiri allo specchio quel che resta della mia beltà maschia, e tenga accuratamente chiusa la mia bocca assetata dei tuoi baci. Sì, sì, sì, a voi donne ho portato molte ragioni di affanno e di tremore. Quando vi facevo mie, subito mi saziavo e volgevo altrove lo sguardo rapace. Ma oggi non devi paventare questo vecchio umiliato e curvo e desideroso di uscire di scena. Prima però, prima, prima io devo rivedere la curva del tuo piede, e assistere, oh sì oh sì, al momento in cui ti sfili la calza e liberi il piede fatale e fatato, e subito nell’aria vorrei che si spargessero le essenze preziose del tuo sudore, qualcosa di imbestiato e di agreste, mi auguro, che sappia la stalla e l’erba e il capanno senza elettricità, e il latte all’alba e l’acqua fredda della fonte, e il silenzio attorno perché Pan possa cogliere i suoi trionfi. No, non devi temere di me. Se lo vorrai, non ti verrò sopra colla antica baldanza. Mi accontenterò come un mendico, come un pezzente d’amore, di vederti distesa sul mio giaciglio, sul rosso drappo che lo copre preparandosi ad essere strappato come un sipario che si leva su paesaggi irresistibili. Se me lo ordinerai, io starò cheto vicino a te, il capo appoggiato sulle mani, e ti accarezzerò coi miei poveri occhi, con quel che rimane di loro, dopo i voli perigliosi nei cieli di guerra e dopo il lavoro da ciuco sulle pergamene laboriose. Procederò secondo il mio abituale cerimoniale. All’inizio, masticherò a lungo in bocca polpe succose di frutta fresca e poi le passerò nelle vostre che la riceveranno avide come un’ostia consacrata. E subito dopo, la posizione del badana, io genuflesso fra le vostre cosce ad accarezzarvi la rosa colla parte di me più puntuta e sitibonda, guidato dalle vostre dita, secondo il vostro ritmo e la vostra necessità, a rovistare tra le foreste del godimento, in attesa della danza, dell’orgia, del momento in cui mi rivestirò della vostra pelle per la “vogata” finale. Aspetterò così che Morfeo si posi sui tuoi capelli e sul tuo corpo nudo, e mormorerò una lingua che non sai, con formule rinnovate del tutto. E magari, quando il nome giusto sarà trovato, tu ti alzerai dal sonno, come Lazzaro riconoscente, e uscirai allora dal letargo e dall’anonimato, per assumere sembianze e identità terrene. Ma oggi sono esausto davvero, avido di pace dopo tanto romore, dopo tanta guerra, e le spalle si incurvano dopo le ore trascorse invano ad attenderti, e il cuore sobbalza ogni tanto con sinistri smottamenti, e la fronte si imperla di un diaccio colore, e le immense occhiaie si dilatano ancor più a mangiarmi il volto. Sì, fonte del miracolo, in questo momento ci sei solo tu a trattenermi dal gettarmi in fondo al lago. Vorrei almeno che le ombre si stampigliassero sui miei lineamenti, cancellandoli dal profondo. Perché ormai il néant è vicino, lo sento, lo vagheggio come un’uscita dalla carcere. E mi disgustano anche le mie parole, le etichette con cui ho forgiato la mia dimora, la Priorìa e la stanza del lebbroso, e quella della Leda, del Mascheraio, del Mappamondo, del Monco, della Zambra dove conto che la corda del cervello possa alfine spezzarsi risparmiandomi le miserie dell’agonia, un labirinto ormai ridicolo, affollato da fantasmi, da sguattere, da bagasce, da badesse al passo, inviatemi nell’harem so bene da chi, sì, sì, da chi intende disfarmi colla carne, sì sì, dal mio compagno d’armi e di governo invidioso della mia intatta autorità sul mondo. E non sa invece le mie risorse. Mai, mai, mai una volta ha fatto fiasco il mio archibugio saettante. Lo sai, vero, che le mie fantesche si interrogano sulla inesausta energia del Principino, da loro paragonato ad un cactus che mai retrocede. Non angustiarti però, bimba. Non temere. Magari mi accontenterò, piccola selvaggia, di accarezzarmi io stesso la catapulta perpetua, tornando infante precoce e insonne, quando perlustravo tutte le risorse del mio corpo e infilavo la mia verga di fiamma in tutti gli orifizi della mia cameretta, prima di trovare ospitalità sfregolante nei pertugi di serve e nobildonne, attratte dal divin Cherubino.

Stamane il lago ostenta un grigio disadorno e la primavera sembra ormai impossibile. Tanto, per me non tornerà più primavera. Abbi pietà, allora, figlia scontrosa. Non sai di cosa sono stato capace quando avevo ventanni. Sapevo godermi anche tre donne al giorno. E più avanti, a oltre cinquantanni, nelle pause della guerra, mi sono destreggiato con tante femmine e nessuna, dico nessuna, si è mai lamentata o se n’è andata insaziata perché il mio monachino di ferro era sempre arroventato. E certune, le ho assaporate a tal punto che mentre mi stendevo sopra di loro, mentre le invadevo con baci lunghi sino al cessare del respiro, mentre ero profondo dentro di loro rovesciavano indietro la nuca, gli occhi riversi, le mani serrate, la bocca gonfia di impudicizia suggente, prossime a svenire, quali Sante Terese ebre di me, ebre di Dio, le spalle disciolte come neve bollente sopra di me. Ma adesso è diverso. Dalla mia cavità sono sfioriti i denti, come petali avviliti dal freddo. Sto male, sto male, mio incantamento. Ho voglia di carezze innocenti, quelle di una madre di quando mi rannichiavo minuscolo nella mia cameretta, muto sul guanciale e mi ripetevo per farmi coraggio “N’n tenghe niente! Voje sta ‘cquà”, coll’idioma cantilenante dei miei pastori d’Abruzzo. Mi fai riandare, vedi, alle mie prime conquiste, quando ho scoperto la seconda bocca da manomettere, la bocca assetata e non impube, nella figliola del colonnello, Clemenza, o in quella del mastro muratore calcinoso, la Calcinella. Quando ho conosciuto le mie piccole meretrici, le danzatrici del ventre, come Lucrezia su cui ho effuso copiosamente i primi flutti della mia pubertà rigogliosa, lasciando emergere la mia cieca radice sotterra. O era forse la baccante rusticana, il volto intinto d’uva nera spremuta nell’attesa di me nella vigna deserta?  Ma come ti chiami davvero, o mia tenerezza imperiosa? Sono stanco di imporre alle muliebri compagne nomi estrosi, che un tempo inventavo durante le lotte del piacere, in mezzo agli alti gridi. Ether, Lucietta, Gioetta, Vellutino, Murcia, Myia, Zazzerina, Smikrà, Saurella, Joiò, Dianella, Angioletta, Demonassa, Melitta, Comarella, Gigantona, Buonarrota, Venturina, Nidiola, Coré, Vidalita, Occhichiara, Tormentilla (elenco che conservo nei miei appunti di caccia amorosa per non affaticarmi nei nuovi conii, perché più che memoria ho refoli di passato, e non posso fidarmi della mia mente), insomma un rosario di araldiche escrescenze che dettavo a costoro, fiere del battizzo. No, no, stamane m’è tutto chiaro. I cuscini sono sempre gli stessi, così pure gli inginocchiamenti, e insieme i barattoli, i fazzoletti, i sacchetti di profumi afrodisiaci sparsi tra le pieghe delle lenzuola, tra le liane per gli esperimenti arditi del piacere, prima della voluttà, ad allertarla, ad incendiarla, a mantenerla, a farla indugiare all’infinito. E sempre la stessa nausea, poi, davanti allo sciupio dello spazio, il letto ingombro di vesti, le mie camicie di seta fine e fresca divenute cenci immondi, i profumieri aperti a ingentilire invano biancheria gualcita e strappata, fradicia di macule, come il mio petto, come il mio collo che pretendevo sempre devastati dai loro risucchi, dai loro morsi vampireschi. E ad alcune, se appena sciupate dagli anni, coprivo il torso o le palpebre coll’ombra dei miei tessuti d’oro. Nausea, ancora, davanti alla fame prodigiosa che un tempo mi assaliva dopo il dispendio di forze. No, ora sono cambiato, sono quasi un Santo, un Santo davvero. Amo solo nello sguardo e l’estasi la raggiungo contemplando. Ma guai a ricordare la primavera. Tanto vale, tanto vale mirare commosso la tua miracolosa adolescenza, l’arco scattante del tuo piede pieghevole, il modo in cui annuncia la gamba e poi la coscia bianca e liscia come marmo irrigato di sangue. Oh, la tua gamba che potrebbe intrecciarsi dietro la mia schiena ansante e vittoriosa, oh la tua gamba inesorabile che potrebbe stringersi ai miei fianchi non lasciando mai la presa, mentre si scioglie nel tuo grembo l’aroma chiaverino, e il muschio si inumidifica vagheggiando la mia semenza e irrorando il mio mento. Voglio, pretendo di calcarti! Fallo, fallo, fallo! Oggi sono afficato di te! Dai, dai, dai! Ancora, ancora, ancora! Lasciami sulla punta delle dita la tua luce. Della tua pelle chiara come lampada d’avorio trasparente. Vieni, vieni, devi venire al mio richiamo. Te lo ordina chi arringava truppe e folle dalle ringhiere alte sulle piazze, chi maneggiava l’anima di feroci soldati e popolani desiderosi solo di morire per me. Getterò tra i gelidi flutti tutti i miei versi più belli e riusciti, le medaglie più dorate e strappate ai caduti tra abissi e cime innevate, persino l’anello materno che porto al dito, tutto per riavere diciottanni e scoprire con te la gioia. Il tempo mente, mente sempre il tempo. Io avverto dentro di me l’antica forza. Non senti il mio gemito? Sale dalle ali della mia anima in combustione, sale dalle fibre dei miei nervi che si torcono tutti. Hai il volto circonfuso della luce dell’enigma, e te lo dice chi sol teme di non essere incompreso. Perché hai l’effigie ora assorta nell’assimilazione di tutta la spiritualità della notte stellata, ora spalancata nella curiosità crudele e inesausta dei sensi, pronta a dirmi parole indicibili e insensate e a farmi ardere le ossa come un fascio di rami resinosi sino al getto del mio succo inesauribile e copioso, il suggello più pieno del mio fuoco interiore. E poi io so che hai sotto la lingua il miele, e che nel cavo delle tue ascelle è celata la magnolia e la tuberosa, odore dolce e terribile, che io leccherò in fondo, sino all’ultima stilla. Coprimi almeno gli occhi coi tuoi riccioli ramati, ad affrontare l’eterno insonnio che mi perseguita. Chiudili su questo presente che mi umilia, su questo inverno aspro e desolato. Che aspetti, dunque? Devi obbedirmi. Non puoi rifiutarti a me. Abbi pietà di me, mio sospirato balsamo. Desidero l’indulgenza che non si nega ai cani malati. Io ne ho tanta e non condivisa dagli altri, evidentemente. Ma nessuna femina s’è mai sottratta al mio piacere, mai, mai, mai. Io ho avuto ai miei piedi, supplici perché le ghermissi, le più grandi dive del palcoscenico, le danzerine, le operiste più celebri, le nobildonne più irraggiungibili e altere, tutte tutte imploranti le mie carezze. E tu vorresti per caso vendicarle colla tua indifferenza? E’ questo che vuoi? E’ questo? Ma le altre, se hanno sofferto per causa mia, hanno pure conosciuto il cielo tra le mie braccia e l’ardore di bruciarsi in Gabriel. Che vuoi allora fare di me? Tanto riuscirò a stanarti, pazzerella, dal tuo borgo selvaggio, o mia forosetta. Intanto la mente già palpita di ebrezza, di nuovo, di nuovo, di nuovo nel sentirti arrivare, china e devota al sacrificio. Ti bacio i belli occhi e l’arco dei piedini, e ti sussurro infine questo saluto ceruleo nonostante il grigio calcinato del lago. Ti bacio tutta. Tutta. Tutta. Tutta. Tuo Ariel

 

*** 

 

Breve scritto di accompagnamento di Luisa Baccara.

 

Ma chère Aélis, se trovi il tempo di leggere questa lettera condividerai, mi auguro, le mie pene e appoggerai le soluzioni che credo sia il caso di adottare quanto prima per evitare al Comandante ulteriori rischi per la sua augusta persona. Devi fidarti di me, come io ho imparato a fare nei tuoi riguardi. E questo dopo i nostri passati contrasti. Ma avrai capito, spero, che la sicurezza del Comandante è lo scopo della mia vita, come lo è per la tua. Tu sei ben diversa dalla Emy teutonica, e conosci bene il mio pensiero a proposito. Mai, insisto, mai avremmo dovuto permettere a quella là, alla signorina Heufler, di far parte del nostro Tempio d’amore. Ma lui che anni fa voleva stodeschizzare il nostro eremo, ora la lascia circolare, questa spia magalda. Comunque, anche ieri gli ho procurato le roselline, i piselli freschi, tutti pazientemente sbucciati, come ha preteso dopo il sogno delle madonne fiorentine. E gli ho fornito il cacio tondo della Maiella, e le fette-balsamo della pesca zuccherosa, e la scatola di baicoli per la nuova ospite (saprai che costei è in crisi, travolta da ridicoli rimorsi di madre che trascura la prole per starsene con Lui), se no lo vedevo avvilirsi. Ormai è come un bambino che fa le bizze. Anche il lavoro rallenta e l’Officina resta spesso vuota perché il fabbro mago, l’Operaio della parola, insegue nella bottega di poesia solo strane fantasie oppure sostiene che al solo entrarci la sente “stridere” e così ha la scusa pronta per fuggirsene fuori. E un’altra giornata allora se ne va senza l’opera, sostituita da vaniloqui e ruminazioni assurde. Com’era per noi eccitante, ricordi, quando bussavamo alle porte del laboratorio a gustare per prime le parole alate appena vergate dalla mano ispirata dell’Artefice! In questi foglietti che ti allego invece si respira solo follia, perché la storia di questa ragazza probabilmente esiste solo nella sua immaginazione. Non ce ne ha mai parlato, e non ha permesso che passasse per il nostro controllo e i nostri filtri sapienti. Insomma, Lui è convinto di averla visto l’altro pomeriggio alla darsena. S’è messo in testa di averle dato un appuntamento e anche ieri è stato tutto il giorno ad abbigliarsi per un incontro notturno che non c‘ è stato, che non poteva starci. Forse dovremmo ridurre la dose della polvere. In fondo, se mancano le occasioni, perché continuare ad inebriarlo senza frutto? In più, oltre alla gengiva che ha ripreso a spasimare al menomo tocco, credo che la cacarella attuale, o diarella come la chiama Lui, cacarella che si alterna alle fasi di “ciuco stitico” come Lui si pregia definirsi, dipenda dalla somministrazione della stessa polvere. Come anche l’eczema deformante che gli imbratta la pelle morbida e liscia e femminea di un tempo, di cui soffre (“la straziante vergogna”) nel denudarsi davanti alle ancelle della notte. Almeno proviamo a ridurla, non dico a sospenderla. Oggi ho l’umore tetro pensando a come siamo ridotte, tu ed io, noi che viviamo per Lui, di Lui, ogni volta costrette a rimuovere il confronto col passato, le tante eroiche imprese, quando era Tutto per noi e noi eravamo le fortunate destinate a bevere dalla sua esistenza mirabile, a scaldarci ai suoi giochi portentosi d’amore e di scrittura, in mezzo a stordimenti e congiungimenti nei letti d’ombra, tra le Beatitudini, pascolo dei sensi e del cuore e dell’anima. Io gli suonavo al pianoforte Scriabine o all’organo adattamenti da Debussy, armonie che gli davano l’ebrezza e rendevano ancora più acute le sue voglie di me e di noi. Sfioravo la tastiera colle “mani terribili” da cui agognava scotimenti e carezze mortali. Ma non essere gelosa, ti prego, ma chère, di queste confidenze. Oggi, tutto è così profondamente diverso. Perché oggi io e te inseguiamo un povero essere dispettoso e irritabile che guaisce al minimo rimbrotto, che domanda “sorella acqua” nella vasca del bagno blu ad una temperatura che non gli va mai bene, che geme sugli anni che passano (ieri m’ha scritto nei biglietti quotidiani di sentirsi implacabilmente, turpemente “stravecchio, decrepito, squarquoio” coi consueti termini che mi affaticano a cercarne il senso nei tanti dizionari), che insulta se lo si contraddice, che pretende da noi merce umana sempre più giovane (le vuole minorenni, ma che non sembrino tali) e dunque pericolosa per le sue forze manomesse se non interviene il soccorso della polvere. E di nuovo allora, come un circuito perverso, lo dobbiamo esaltare perché arrivi a compimento il suo ennesimo capriccio. E ascoltarne all’alba i resoconti amorosi, non più amanti, non più confidenti, non più sorelle, ma solo cameriste e ruffiane, è un insulto alla nostra pazienza, non credi? Lui ci considera alimentate di fango, è certo, Lui che pure ci aveva foggiato a sua immagine nei giorni della gloria e della vita, che ci chiamava fasci di nervi irraggianti elettricità. Si può andare avanti in questo modo, à ton avis? Gli ho donato tutto e oltre di me. Per lui ho rinunciato ai concerti, alla gloria, alla famiglia, ai figli, e lo stesso hai fatto tu. Adesso è venuto forse il momento di reagire a questa recita insana, adesso mi sembra davvero penoso continuare così. Perché quel che ci chiede è inumano. Dovremmo fare qualcosa. Io sono esaurita e anche tu credo lo sia, non negarlo

(qui la lettera si interrompe bruscamente e il segno si fa arzigogolo e quindi si impenna a nota musicale).



 

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Commenti al Post:
ciapessoni.sandro
ciapessoni.sandro il 13/05/14 alle 15:49 via WEB
ciapessoni.sandro il 13/05/14 alle 15:40 via WEB Mara, Mara mia fedele e generosa Amica, leggerti è per me una grande gioia poichè proprio da questa tua presenza so valutare la sincerità e la passione dei tuoi interventi. Purtroppo Mara sono io che non ho più l'assidua frequenza al PC che avevo una volta, ma credimi, quello che trascrivo lo eseguo con speciale interesse; desidero sempre che le notizie inedite che riguardano i grandi Personaggi della Storia, siano portati a conoscenza di quei pochi Eletti che ancora conservano il cervello nella testa... MJara, fra quei pochi Eletti, ci sei anche tu e per questo... dirti "grazie" è ancora poco. Quella "IGNOTA FANCIULLA" è realmente esistita ed è mancata verso la fine del secolo scorso. Viveva a Padova. Ti abbraccio Mara e sii sempre serena, io ti penso. Con affetto, Sandro. Rispondi
 
 
maraciccia
maraciccia il 13/05/14 alle 20:40 via WEB
ho letto la lettera proprio ora Sandro, bella..e se anche era un sogno..che sogno!..ora si scrivono solo "messaggini"
 
ciapessoni.sandro
ciapessoni.sandro il 14/05/14 alle 14:39 via WEB
Carissima, anche se allora... (in illo tempore) dato la mia giovane età, non ero in grado, in condizione di apprendere l'importanza di certi avvenimenti, bsì... ebbi la così detta fortuna di conoscere quelle due signore. Purtroppo il tempo trascorso, lo scorrere della mia stessa vita, so che tanti particolari mi sono ormai cancellati dalla mia memoria. Un qualcosa però in noi rimane... è quel "qualcosa" che almeno a me mi fa dire: "Io c'ero..."! Troppo tardi però si valutano certi eventi. Ciao Mara, il Sandrino.
 
 
maraciccia
maraciccia il 27/09/14 alle 18:56 via WEB
Ciao Sandrino..^___^
 
   
ciapessoni.sandro
ciapessoni.sandro il 28/09/14 alle 14:52 via WEB
Mara carissima, ci risentiamo dopo qualche mese di forzata pausa a causa della mia malferma salute. Quante cose si sono succedute in questo tempo! Il moto camminatorio si è ulteriormente peggiorato e la vista... pure. Sono sempre tenuto sotto controllo dal medico. Mi sento però molto stanco, sfinito. Gli anni passano Mara carissima, e soltanto il Padron Grosso sa Lui din quando... Sento Mara che la mia strada ormai è tutta percorsa, quest'ultimo tratto... Ma dimmi anche di te Mara. Spero di leggerti presto poichè realmente credo abbia ancora poco tempo disponibile. Ti abbraccio Mara e già da ora voglio non solo ringraziarti per nl'assistenza che mi hai dato con le tue4 parole, con la tua amicizia, col tuo cuore. Poppo darti un bacetto? Il Sandrino.
 
anyony
anyony il 28/05/14 alle 18:51 via WEB
Bellissima lettera piena di sensualità e romanticismo e di rimpianto con ciò che è stato e che gli piace rivivere raccontandolo. Grazie Sandro, ci proponi sempre qualcosa di molto alto, ti abbraccio forte Antonia
 
 
ciapessoni.sandro
ciapessoni.sandro il 29/05/14 alle 16:40 via WEB
Carissima Antonia, ho visto ed apprezzato la tua presenza in questa pagina densa di avvenimenti che se bene analizzati ci riportano indietro nel tempo per farci rivivere quelle emozioni che, alcune delle quali, io ho vissuto. Personaggi che realmente conobbi, ma che a quella mia età di allora, non ero in condizione di valorizzare appieno, così come oggi... oso modestamente fare. Ti abbraccio Antonia e ricevi anche questo bacio che porterai con te là nel nostro bel lago. Il Sandrino.
 
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