Il Blog della Luna

Post N° 7


Ok il tono non sarà proprio da Blog, magari a molti verrà sonno dopo le prime due righe, non importa, se avrete la costanza e la voglia di andare avanti, scoprirete una nuova, piccola parte di me, il nucleo primordiale della mia più grande passione...Si inizia.....L’idea di eseguire un gruppo di paesaggi raffiguranti lo stagno di Giverny venne a Monet nel 1909, ma solo più tardi, quando la figlia Blanche e l’amico Clemenceau con la loro vicinanza mitigarono il dolore per la perdita della moglie e del figlio, tornò intensamente al lavoro. Nei primi anni del 1900 Monet acquistò la casa a Giverny, in un prato completamente vuoto, privo di alberi ma irrigato da un braccio tortuoso e gorgogliante del fiume Epte, creò un giardino da favola scavando un grande stagno al centro e piantando sulle sue sponde alberi esotici e salici piangenti, i cui rami pendevano con le loro lunghe braccia verso la superficie dell’acqua. Nello stagno piantò migliaia e migliaia di ninfee, varietà rare e con i più bei colori dell’arcobaleno: dal violetto, rosso e arancio al rosa, lilla e malva e infine, sopra l’Epte, nel punto dove esce dallo stagno, costruì un ponticello rustico a schiena d’asino. Monet seppur anziano e malato agli occhi, curava personalmente il suo giardino, e lo rimirava per ore seduto al bordo dello stagno captando ogni particella di luce, ogni scintillio, ogni riflesso cangiante. Poi, quando fu sicuro di conoscere ogni foglia, ogni increspatura dell’acqua, fece costruire un nuovo atelier e fece sistemare delle tele su telai lunghi oltre quattro metri e alti due che potessero essere spostate su cavalletti mobili. Dispose queste tele in ovale attorno all’atelier: Monet poteva allora cominciare a dipingerle basandosi su nient’altro che sugli schizzi precedentemente realizzati e sulla sua memoria. “L’elemento base è lo specchio d’acqua – diceva lo stesso Monet – il cui aspetto muta ogni istante per come brandelli di cielo vi si riflettano conferendogli vita e movimento. La nuvola che passa, la fresca brezza, la minaccia o il sopraggiungere di una tempesta, l’improvvisa folata di vento, la luce che svanisce o rifulge improvvisamente, tutte queste cose che l’occhio inesperto non nota, creano variazioni nel colore ed alterano la superficie dell’acqua: essa può essere liscia e non increspata e poi, improvvisamente, ecco un’ondulazione, un movimento che la infrange creando piccole onde quasi impercettibili. Lo stesso accade ai colori, al passaggio della luce all’ombra, ai riflessi. Per ricavare qualcosa da questo continuo mutare bisogna avere cinque o sei tele sulle quali lavorare contemporaneamente. Coglier l’attimo fuggente, o almeno la sensazione che lascia, è già sufficientemente difficile quando il gioco di luce e colore si concentra su un punto fisso, ma l’acqua, essendo un soggetto così mobile e in continuo mutamento è un vero problema, un problema estremamente stimolante perché ogni momento che passa la fa diventare qualcosa di nuovo e di inatteso.”  Estremizzando l’antiaccademica pratica pittorica del maestro Manet, Monet eliminò ogni convenzionalità rappresentativa per dare all’immagine la qualità di un’istantanea in rapida dissolvenza, simile all’immagine impressionata sulla retina. Al pari di essa, la superficie dipinta era costituita di soli fattori luministico­cromatici, di “tacche” di colore puro, accostate o frammentate , che ricreavano il gioco provvisorio e coloristicamente variato di una percezione visiva sintonizzata sul rapido fluire della vita.L’occhio ricomponeva ciò che il pennello dissociava, come in una vera musica d’orchestra in cui ogni colore era uno strumento con un ruolo distinto, e i cui momenti, con le loro tinte diverse, costituivano i temi successivi.Egli accentuava e scomponeva il colore puro con un’arditezza senza pari non solo per esaltare la superficie della tela, ma anche per esprimere concretamente la trasparenza e la vibrazione dello spazio, il luminoso volgere del sole, il moto della luce che era la festa e la vita eterna della natura. Dalla diretta osservazione di quest’ultima, lezione della quale Monet non avrebbe più fatto a meno, nacque così una visione che articolava quei principi tecnici sui quali si sarebbe poi fondato l’impressionismo: la scomposizione del tocco, la vibrazione della luce, il brillio dei colori puri.Le pennellate di Monet erano di una complessità, di una varietà e ricchezza d’invenzione, tali da predisporre veramente il prodigioso fiorire della pittura moderna.Scrisse il critico Cassou nel 1962: «La passione di Monet per l’impressionismo, lo conduce a quegli estremi confini dove un’arte, sorpassa i limiti che le sono propri e sembra prossima a cambiare natura, tramutandosi in un’arte diversa: la pittura in musica.» (Nasceva infatti in quel periodo l’impressionismo musicale con il Prélude à l’après­midi d’un fune di Debussy. Al tema sinfonico Debussy contrapponeva un paradigma diverso, rappresentato da un flusso sonoro capace di tradursi in sviluppo aperto e innovativo, analogamente l’impressionismo pittorico aveva permesso alla luce di penetrare nei temi raffigurativi e di frammentarli in evidenze cromatiche  diffuse, mutando il rapporto tra figura e natura circostante.) «Quest’arte supera il mondo esterno, quest’arte aspira a definire se stessa, diventando pittura pura, ma ciò era un profondo paradosso, poiché proprio nel momento in cui la pittura è pittura pura, non somiglia più alla pittura, ma ad un’altra arte e nella fattispecie, alla musica. Scopo della pittura è di rappresentare il mondo esterno e Monet si è accanito nella ricerca di tale mondo, riesumato nello scintillio dove galleggiano le Nymphéas. Al di là di questa ricerca egli non ha trovato altro che diffusione di colori e di riflessi, materia cangiante, pittura pura per la pittura. Ma anche superamento della pittura, poiché noi non esistiamo più in questo dominio della pittura: gli elementi di un’altra arte, i suoni, ci immergono in un sogno senza confini, continuo ed esclusivo. Così liberata, resa a se stessa, essa ci appare piena di contrasti, e comincia ad agire sull’anima in modo diverso portandoci, come la musica, in un mondo di fantasia e di sogno. Ed è proprio questo che ci ha urtato nelle Nymphéas, poiché nessuno ha piacere che un’arte esca dai propri limiti e formi un’alleanza ibrida con un’arte diversa.»«[…]Quando si rimane sul piano di immagini armoniose, non si può essere lontani dalla realtà, o almeno da quanto di essa possiamo sapere […].Il vostro errore è di voler ridimensionare il mondo sul vostro metro, mentre ampliando la vostra conoscenza delle cose, vi ritrovereste ad aver ampliato in uguale misura la conoscenza di voi stesso.»Con questa ultima testimonianza raccolta dall’amico Clemenceau, Monet ci accompagna lungo il resto del viaggio delle nostre piccole vite barcollanti, ancora storditi dalle tacche di colore, dalla luce puntiforme, dall’acqua, dal cielo e dalle ninfee che galleggiano nei nostri cuori riscaldandoli con quella sensazione di confine tra Nulla e Tutto assoluto, che si dilata e si restringe come uno spazio liquido man mano che ci avviciniamo e ci allontaniamo alle tele, ora sprofondando negli impasti amorfi di colore, ora cercando di mettere a fuoco l’idea primaria che ognuno di noi può trovare dentro se stesso, nel piccolo laghetto di ninfee che anche lui ha pazientemente costruito in un angolo del suo inconscio e sul bordo del quale è obbligato a sedersi nello sforzo impossibile di cogliere il mistero delle Nymphéas.