Il Blog della Luna

Post N° 9


Ci aveva pensato bene, a dire il vero negli ultimi tempi non aveva fatto altro: mentre scriveva, mentre leggeva, mentre faceva la spesa, ma soprattutto di notte, quando, stesa su quel letto dove solo qualche giorno prima avevano fatto l’amore intossicati dai loro ferormoni, si ritrovava sola in compagnia di un ricordo ancora vivo che ogni tanto le accarezzava la pelle con brividi freddi di piacere.    Ci aveva pensato così bene che ora, tutto le appariva talmente chiaro e ragionato da spaventarla: quella sera stessa sarebbe andata a casa di lui. Sarebbe partita alle nove e venticinque dal parcheggio sotto casa, sarebbe arrivata in via Merano alle dieci meno cinque, avrebbe preso un lungo respiro e alle dieci in punto avrebbe suonato il campanello dell’intero quattordici all’ottavo piano. Lui avrebbe aperto dopo pochi secondi, si sarebbero squadrati per un attimo rimanendo immobili sul pianerottolo, poi lui l’avrebbe fatta entrare, le avrebbe offerto qualcosa da bere, magari uno scotch, e si sarebbero seduti sul divano di pelle nera nell’ampio salone con il soffitto di travi a vista: allora lei gli avrebbe detto che era tutto finito, che ci aveva pensato bene, e che la loro era una storia impossibile, senza basi, senza certezze, fatta solo di passioni travolgenti, che si sarebbero consumate inesorabilmente insieme a loro, e a quel punto sarebbe stato troppo tardi per accorgersi di aver sprecato tempo a giocare agli amanti, finendo poi per rimanere soli. Lui sarebbe rimasto in silenzio mentre lei parlava a voce bassa, poi, dopo una pausa di silenzi e di respiri, avrebbe lasciato che la sua voce profonda e matura distendesse nell’aria le sue frasi di disapprovazione, avrebbe fissato i suoi occhi in quelli di lei, e avrebbe cercato di dissuaderla come aveva sempre fatto, ma questa volta lei non avrebbe ceduto. Sarebbe rimasta ferma sulla sua posizione anche quando lui, avvicinandosi lentamente, le avrebbe detto che aveva ragione, che non potevano continuare a farsi del male e che non si dovevano vedere più, e poi, arrivato alle sue labbra, le avrebbe sussurrato mischiando la sua aria con quella di lei, che era finita. No, quella volta non si sarebbero svegliati dopo qualche ora nudi, avvinghiati l’uno all’altra, a domandarsi perché era successo ancora, quella volta si sarebbe alzata e sarebbe uscita prima che lui l’avesse potuta trascinare nel labirinto della passione.      Certo era assurdo però, lei che aveva sempre snobbato le relazioni serie perché le riteneva la causa principale dei divorzi, lei che aveva scritto per anni dell’amore come un’unica sola grande passione travolgente da vivere fino a quando rimane viva e dalla quale poi bisogna scappare prima dell’arrivo della noia, dell’abitudine o della riconoscenza. Ora proprio lei scappava da una storia che le avrebbe potuto dare tutto ciò che aveva sempre cercato: passione, emozioni, niente legami, amore incondizionato, senza interessi o false promesse, basato solo su uno scambio di vite fino all’osso. Ora proprio lei parlava di certezze, di basi, di stabilità, forse crescendo, cominciava a sentire il bisogno di sicurezza, di protezione, di quella fissità che negli anni passati l’aveva sempre spaventata, preferendo pensare che sarebbe potuta rimanere sola piuttosto che finire per tutta la vita accanto ad un impiegato apatico senza altri interessi a parte il lavoro e le partite della domenica. O forse era proprio il fatto di aver trovato finalmente quello che cercava che la spaventava: quando anche quella storia sarebbe finita, come era inevitabile che fosse, avrebbe avuto la certezza che non sarebbe esistito più niente di così perfetto e la sua vita sarebbe diventata inutile, non ci sarebbe più stato niente da cercare e da scoprire e tutto si sarebbe svuotato di significato: il suo lavoro, le sue passioni, i suoi desideri, la sua vita.   Forse era proprio da questo che voleva fuggire: dalla fine, dal capolinea, dal punto di conclusione che non aveva mai messo nei suoi racconti e nei suoi romanzi, e che ora incombeva come una cappa grigia e opaca.    “Basta pensare” si disse parcheggiando l’auto proprio sotto casa di lui: erano le dieci meno cinque, un’acquolina fine scendeva ormai dall’inizio della giornata uggiosa, stava per aprire lo sportello, ma qualcosa la bloccò, come un braccio che le bloccava le spalle allo schienale del sedile. Era lì immobile che, mentre fissava i rivoli sottili d’acqua che si inseguivano sul parabrezza intessendo un ricamo liquido e trasparente, si ripeteva: “Avanti Sofia, non fare la stupida… Forza, scendi da questa maledetta macchina”.    Con movimenti pesanti, costrinse il suo corpo improvvisamente rigido a scendere dall’abitacolo, ora era in strada, con la pioggia che le tesseva una sottile ragnatela di goccioline minuscole sui capelli ricci. Il sole era calato già da tempo, la strada era illuminata dai lampioni e dall’insegna luminosa del negozio di antiquariato all’angolo tra via Merano e via Adelfi.                                                                                                                                                                                                                                 Il portone del palazzo era proprio lì davanti a lei, le sarebbe bastato attraversare la strada e vi si sarebbe trovata proprio di fronte, ma le sue gambe non avevano alcuna intenzione di percorrere quei pochi metri che la separavano dalla fine di quel patimento. Allora cominciò a percorrere in lungo il marciapiede sul ciglio del quale aveva parcheggiato la sua auto: la pioggia cominciava a scendere con più decisione, impregnandole i capelli e gocciolandole sulle guance fredde e arrossate, i vestiti erano inzuppati, ma lei non si fermava, continuava a camminare a testa alta guardando l’orizzonte che si distorceva sotto la rete d’acqua che lo avvolgeva, camminò fino a che le mani non cominciarono a dolerle per il freddo e le gambe non si indurirono, allora tornò indietro lungo lo stesso marciapiede osservando al contrario la stessa strada, le stesse auto, le stesse vetrine, gli stessi semafori, gli stessi barboni, le stesse cartacce, fino a trovarsi di nuovo davanti a quel portone. Guardò in alto, su, fino all’ultimo piano dove le finestre sembravano più piccole ed il sole nasceva e tramontava sempre un po’ prima rispetto a chi viveva più in basso, le luci erano quasi tutte accese, lui diceva che odiava il buio, ma Sofia non gli credeva, diceva che erano tutte scuse per giustificare il fatto che era uno sbadato e che comunque fosse, con tutto quello che guadagnava, se lo poteva permettere. Lei era fatta così, niente mezze parole, diceva solo quello che pensava in ogni occasione.   Guardò l’orologio: le undici, secondo i suoi piani a quell’ora avrebbe dovuto essere di nuovo sola, e invece si ritrovava ancora lì, incapace ad attraversare la strada, tremante per il freddo e livida di rabbia per essere stata così stupida da sopravvalutare la sua forza e il suo coraggio. Ma non poteva andarsene, no proprio non poteva, forse il problema era che aveva pensato troppo, doveva buttarsi, imporre a se stessa di affrontare la realtà e mettere in atto finalmente tutta quella teoria che per settimane aveva agitato le sue notti.    Alla fine si decise, tirò un respiro profondo inalando quanta più aria potevano contenere i suoi polmoni e si spinse dall’altra parte della strada, senza accorgersene si ritrovò sulla soglia dell’interno quattordici a vivere quell’attimo di silenzio di fronte a lui che la guardava sorpreso.   Sembrava un pulcino bagnato, con il viso rigato da una pioggia salata che mentre l’ascensore la portava all’ottavo piano non si era neanche accorta che fosse cominciata a cadere, gli occhi lucidi e una strana espressione triste che gli strinse il cuore.   Non riuscirono a dire niente, lui le fece segno di entrare osservando quel corpo giovane e gocciolante camminare a stento. L’aiutò a togliersi la giacca e la fece sedere vicino al caminetto acceso, poi le si sedette davanti prendendole le mani fredde tra le sue calde e lisce. Si fissarono a lungo negli occhi incapaci di dire niente, poi lei prese un lungo respiro e disse:   «Claudio… è finita» Ma questa volta non fu lui a cercare di convincerla del contrario, a cercare un contatto per dimostrarle che non poteva essere così, no, questa volta fu lei che si avvicinò, che cercò le sue labbra calde e che volle scaldare le sue, fu lei che assaggiò per prima il suo respiro, fu lei che gli sussurrò che non era vero, che non riusciva a vivere senza di lui, che aveva voglia di lui, delle sue mani, della sua pelle, della sua bocca, della sua schiena. Fu lei a togliergli il maglione pesante, i pantaloni, e a baciarlo fino a farlo impazzire, fu lei a farlo sospirare nella luce ambrata del fuoco che proiettava le sue ombre sui loro corpi abbracciati stretti. E per la prima volta, quando tutto fu finito e le loro membra riposarono intrecciate come un unico corpo perfetto, non si domandarono perché era successo un’altra volta.    Per la prima volta non ci furono altro che loro due e quel sentimento strano al quale, fino ad allora, avevano impedito di intromettersi nella loro strana storia, ma che ora attraverso una sottile crepa vi si era intrufolato per sempre.