CINEFORUM BORGO

MEDUSE


Regia: Etgar Keret, Shira Geffen Sceneggiatura: Shira Geffen Fotografia: Antoine Héberlé Musiche: Christopher Bowen, Grégoire Hetzel Montaggio: François Gédigier, Sacha Franklin Scenografia:Avi Fahima Costumi: Li Alembik Durata: 78’ Origine: Francia, Israele, 2007 Sei personaggi, tante piccole storie, una città di mare vista in una luce del tutto diversa dal solito (Tel Aviv), tante vite "bloccate" nell'apatia o nel risentimento che riprendono il loro corso grazie a qualcuno che spesso nemmeno è consapevole del suo ruolo. Ci sono film che sembrano fatti della materia impalpabile delle emozioni, la materia cui danno forma con pochi tocchi leggeri e precisi impastando interno e esterno, vita e sogno, passato e presente. Diretto da una coppia di scrittori israeliani già molto affermati ma al debutto nel cinema, premiato con la caméra d'or a Cannes, “Meduse” è uno di questi piccoli film miracolosi che parlano di piccoli miracoli quotidiani con il pathos, lo humour, l'efficacia delle fiabe impastate con la nostra vita di tutti i giorni. I protagonisti, che non si conoscono fra loro, sono una coppia di sposini freschi di nozze arenata in un brutto albergo che puzza di fogna. Una ragazza che ha appena perso fidanzato e lavoro. Una domestica filippina che tutti trattano come una serva (chiamandola "la filippina", come troppo spesso si fa anche in Italia), ma che finirà per esercitare un ruolo addirittura salvifico sulle persone per cui lavora. Nessuno di loro saprebbe guardarsi dentro, capire chi ha vicino, ritrovare da solo il cammino. Ma ognuno di loro incontrerà, per caso o meno, un testimone inatteso, uno sguardo obliquo, un momento della verità dopo il quale nulla sarà più come prima. Il tutto seguendo non la via artificiosa e sentimentale dei copioni "ben strutturati" all'americana, ma restando sempre molto aderenti alle cose minute della vita, con tutte le loro imperfezioni. Che possono rovesciarsi a sorpresa nel loro opposto. Così una morte diventa un passaggio; una bimbetta con un salvagente venuta da chissà dove apre le porte del passato e del perdono; una scrittrice bella e misteriosa annuncia un cambiamento imprevedibile. Conforta sapere che in una società sotto tiro come Israele lavorino artisti dotati di tanta leggerezza. Capaci per giunta di passare con disinvoltura da un mezzo all'altro. Leggere per credere i folgoranti racconti di Etgar Keret pubblicati in Italia da e/o (“Le tette di una diciottenne”, “Pizzeria Kamikaze”, “Gaza Blues”). Anche se “Meduse” lo ha scritto sua moglie e lo hanno girato insieme, montandolo poi mentre nasceva il loro primo figlio. Più fiaba di così... Fabio Ferzetti, Il Messaggero Prima di “Oh Jerusalem” che va didascalico alle radici del conflitto arabo-israeliano, ecco un film che parla di pace a Tel Aviv, della vita che scorre normale con i suoi misteri come nei romanzi di Amos Oz. Otto personaggi in cerca di un affetto, di una scorciatoia, una mediazione per arrivarci e segnati da un uguale tasso di solitudine, ma in un'atmosfera quasi di neo irrealismo quotidiano. Vincitore della Caméra d’or a Cannes, “Meduse” è scritto e diretto da una coppia, Etgar Keret e Shira Geffen, nipote di Moshe Dayan. Guardano a esistenze che si sfiorano, come un unico destino collettivo di cui nessuno muove le fila, come è di moda nel cinema delle occasioni incrociate, le «sliding doors». C’è una giovane cameriera di feste nuziali che incontra sulla spiaggia una bambina in cerca di un volto amico; c’è una giovane coppia di sposi costretta a saltare il viaggio di nozze perché lei s’infortuna; c’è la babysitter filippina, il personaggio più accattivante, che deve badare a una vecchia bisbetica che a sua volta non s’intende con la figlia attrice; una scrittrice suicida. Storie di vite che scivolano via come le onde marine che suggellano l’ultima scena: la spiaggia evocata da Ferreri è tornata come rumore, mito, simbolo, leggenda. Storie di ordinaria solitudine e insoddisfazione, non segnate dalla guerra ma da una pace che lancia premonizioni. Le vie degli affetti sono infinite e il film ne rispecchia con emozionante precisione le traiettorie: ci si muove tutti come meduse, spinte da correnti sotterranee misteriose. È il reportage di ciò che un turista non vede a occhio nudo ma il cinema invece trasmette con i volti di bravi attori, con qualche contenuta sbrodolatura sentimentale. Accordi-disaccordi nel concertato senza voce solista di cui colpisce una complice, contagiosa tenerezza: gente che vive in una pace forse simulata e forse non solo per colpa della guerra: la paura mangia l’anima. Maurizio Porro, Il Corriere della Sera