CINEMA PARADISO

Senza verità si cancella Nicola Calipari da il manifesto


Nicola Calipari Dieci anni, sem­bra un sof­fio o un’eternità.Dieci anni di vita vis­suta alla gior­nata, in attesa del temuto mese di feb­braio che ine­so­ra­bil­mente arriva e tra­scorre len­ta­mente, pri­gio­niera come sono ancora dei ricordi di allora.L’angoscia aumenta con l’avvicinarsi del 4 marzo, l’anniversario della morte di Nicola Cali­pari. L’agguato, la mitra­glia­trice, Lozano ali­men­tano que­gli incubi, che non sono mai sce­mati dopo la rinun­cia alla ricerca della verità. Con il man­cato rico­no­sci­mento della nostra (dell’Italia) giu­ri­sdi­zione a cele­brare un pro­cesso che avrebbe potuto chia­rire, anche se forse solo par­zial­mente, quello che è suc­cesso quella sera a Bagh­dad. Non si è voluto farlo per sal­va­guar­dare i rap­porti con gli Usa e per paura della verità, che avrebbe coin­volto anche i ser­vizi segreti italiani.Dieci anni, l’immagine di Nicola è sem­pre più sfo­cata e non poteva essere diver­sa­mente: l’insabbiamento del caso Cali­pari doveva ser­vire anche a can­cel­lare la figura dell’eroe di allora. Qual­cuno cele­brerà il decen­nale, in modo for­male. Altri recu­pe­re­ranno dagli archivi le imma­gini di allora, senza porsi il pro­blema di cosa è suc­cesso in que­sti dieci anni.
La coper­tina del 4 marzo 2005È una sto­ria, la mia, che sento rac­con­tare quasi come se non mi riguar­dasse più. È come se mi fosse sfug­gita di mano, come se non riu­scissi più a trat­te­nerla. È come se anch’io fossi finita in un casel­la­rio di archi­vio. È una sen­sa­zione ter­ri­bile. Come se mi aves­sero rubato quella vita che Cali­pari mi ha ridato sal­van­domi dal seque­stro e pro­teg­gen­domi dal fuoco ame­ri­cano. Una vita diversa, senza entu­sia­smo, ma pur sem­pre la mia vita.Una vita da «soprav­vis­suta», com’è ine­vi­ta­bile dopo quello che è suc­cesso, alla quale mi sono abi­tuata tanto che a volte mi dispero per­ché non rie­sco più a ricor­dare quella di prima.Dieci anni in cui anche l’Iraq è ulte­rior­mente pre­ci­pi­tato nel bara­tro della guerra e del ter­ro­ri­smo. E riper­cor­rendo la sto­ria dell’Isil (lo Stato isla­mico in Iraq e nel Levante) che ha occu­pato quasi tutta la zona sun­nita dell’Iraq, oltre che parte della Siria, si riparte da Fal­luja. Ancora Fal­luja, il labo­ra­to­rio dell’Iraq, dove era ini­ziata la resi­stenza con­tro l’occupazione ame­ri­cana, dove era ini­ziata la pene­tra­zione di al Qaeda, dove i Gruppi del risve­glio ave­vano ini­ziato a com­bat­tere i qae­di­sti per­ché inqui­na­vano l’immagine della resistenza.Anche il mio seque­stro era legato a Fal­luja, anche se non sono stata rapita nella cit­ta­dina a 50 chi­lo­me­tri da Bagh­dad e non ci sono finita nem­meno durante la pri­gio­nia. Ma sono stata rapita dopo aver inter­vi­stato pro­fu­ghi di Fal­luja accam­pati intorno alla moschea Mustafa nel cam­pus dell’università Nah­rein. E da Fal­luja potrebbe par­tire il riscatto per libe­rare la pro­vin­cia di Anbar dal ter­ro­ri­smo di al Bagh­dadi. Per ora è solo un auspi­cio, ma ira­cheni rife­ri­scono di gruppi che si stanno orga­niz­zano e com­bat­tono i jiha­di­sti del califfo.Ma non abbiamo più testi­mo­nianze dirette da quelle zone, le uni­che imma­gini che arri­vano sono quelle della pro­pa­ganda del Calif­fato che uni­sce l’imposizione di un regime arcaico e oscu­ran­ti­sta – che distrugge anche il patri­mo­nio arti­stico – con l’uso sofi­sti­cato delle nuove tec­no­lo­gie che tra l’altro docu­men­tano l’orribile scem­pio del museo di Mosul. I video di ottima qua­lità pro­dotti nel Calif­fato ser­vono a ter­ro­riz­zare l’occidente e nello stesso tempo a reclu­tare nuovi adepti. È impres­sio­nante come l’orrore possa riem­pire il vuoto lasciato dalla per­dita di valori e con­vin­cere gio­vani occi­den­tali – uomini e donne – ad abbrac­ciare il jihad.La man­canza di noti­zie veri­fi­cate da intere aree in con­flitto – Iraq, Siria, Libia, Soma­lia, etc. – non sem­bra pre­oc­cu­pare chi deve fare infor­ma­zione, anzi il dibat­tito è sul tra­smet­tere o meno i video dell’Isil, che peral­tro sono facil­mente rin­trac­cia­bili sul web.Del resto, da quando l’informazione è stata mili­ta­riz­zata (soprat­tutto a par­tire dalla seconda guerra del Golfo), le crisi si seguono embed­ded con gli eser­citi impe­gnati sul campo. E magari si tor­nerà anche in Libia con i nostri. Ma que­sta non è infor­ma­zione è pro­pa­ganda, oppo­sta a quella dell’Isis ma è sem­pre pro­pa­ganda di guerra.La pro­pa­ganda non è infor­ma­zione e serve ad ali­men­tare la guerra. Chi crede ancora nel nostro dovere di fare infor­ma­zione non può ras­se­gnarsi a tra­smet­tere veline, ma pur­troppo que­sto non avviene solo su ter­reni dif­fi­cili da fre­quen­tare, avviene anche in casa nostra, dove baste­rebbe avere un po’ più di corag­gio e voglia di cono­scere la realtà. Ma que­sto forse non inte­ressa agli edi­tori che pos­sono sfrut­tare la pre­ca­rietà del lavoro per ricat­tare gli aspi­ranti gior­na­li­sti.Ormai Inter­net ha sosti­tuito l’informazione non solo per chi si serve del web ma anche per chi scrive arti­coli con il “copia e incolla” da Inter­net, per l’appunto. Senza curarsi del fatto che nes­suno con­trolla quello che viene pub­bli­cato: i falsi sono all’ordine del giorno, non solo per i testi ma per­sino per le imma­gini. Per­ché a volte si sfrut­tano gio­vani locali che rischiano la vita per pochi dol­lari al giorno. È quello che è suc­cesso a Mohlem Bara­kat, 17 anni, ucciso il 20 dicem­bre 2013 ad Aleppo, men­tre scat­tava foto per la Reu­ters per gua­da­gnare 10 dol­lari per ogni imma­gine pubblicata.E se non si vuole gio­care con la vita di un gio­vane aspi­rante foto­grafo locale – è sem­pre meglio che fare la guerra – basta cam­biare la dida­sca­lia di una foto: sosti­tuire Iraq con Siria e l’attualità è coperta, salvo il fatto che anche in Iraq le vit­time sono tor­nate ad aumen­tare ter­ri­bil­mente e non c’è più dif­fe­renza tra Iraq e Siria, l’Isil è al di qua e al di là della fron­tiera che non esi­ste più e da nes­suna parte ci sono più gior­na­li­sti da seque­strare. È venuto meno il busi­ness dei riscatti, ma all’Isis non serve nem­meno il riscatto, ha tro­vato un modo più red­di­ti­zio per sfrut­tare i rapi­menti: mostrare in video lo sgoz­za­mento degli ostaggi.