di Giona A. NazzaroA Matteo Garrone va dato atto di un coraggio davvero notevole. Dopo Reality, film dalle molte ombre e poche luci, e con alle spalle il successo di Gomorra che lo ha quasi schiacciato, Garrone ha rischiato, a nostro avviso, di smarrire quel piacere schietto per il cinema, per il pericolo che il cinema necessariamente comporta, che ha sempre distinto il suo lavoro più riuscito. E dunque con una legittima ansia che ci si avvicina a Il racconto dei racconti: le voci e le informazioni circolanti non permettevano certo di avere un’idea precisa di cosa sarebbe stato il film e né tanto meno immaginare come avrebbe impattato sul suo cinema un cast internazionale e una produzione più complessa del solito. Così, quando si riaccendono le luci in sala, si avverte la sensazione, addirittura palpabile, che il cinema di Garrone ha preso davvero una svolta imprevista. Una direzione affascinante che, ed è questo il dato più importante, conserva fra le pieghe del racconto, il piacere del gesto-cinema dell’autore di Terre di mezzo e di Estate romana. Si entra nel film con un movimento quasi impercettibile, come se la troupe circense fosse l’immagine della macchina cinema che sta per attivarsi. Il piano sequenza che ci guida nel film niente ha in comune con il volo iniziale di Reality eppure, la dolcezza del movimento, ci aiuta a varcare la soglia di un mondo che avvertiamo immediatamente, e al tempo stesso, così lontano eppure vicinissimo. Garrone affonda le mani e lo sguardo nello cunto de li cunti di Basile per creare un mondo, una triangolazione morale (e politica), che sorprende per la sobrietà realistica della sua messa in scena. Adottando un approccio diremmo documentario al cosiddetto fantasy, Garrone riesce ad evitare sia la deriva fellinesca che il materiale implicitamente avrebbe legittimato (e che inficiava in parte il precedente Reality), sia l’estetica del genere così come è stata ricodificata da Il trono di spade. Quello de Il racconto dei racconti è un mondo di forme geometriche e astratte. La circonferenza del perimetro della corte reale, i labirinti, i sentieri nella foresta, i cunicoli nei quali si celano mostri letali, la caverna dell’orco, le stanze del castello. Un mondo nel quale il caos e i suoi emissari sono esorcizzati dal rito, a sua volta, evidentemente, una forma fra le forme. Con un acume registico notevole, Garrone orchestra lo spazio del suo film come il coagularsi di un sentire, il farsi di un mondo. Tutti i protagonisti del film sono colti alla soglia di un mondo dove il vero e il fantastico sono ancora intrecciati indissolubilmente. Un mondo nel quale il principio di realtà non ha ancora adottato una prospettiva storica. Nel quale l’uomo non è ancora consapevole di essere lui stesso creatore della civiltà umana attraverso la storia. Se la storia, con Vico, rappresenta la “scienza delle cose fatte dall’uomo”, nel mondo messo in scena da Garrone la storia è ancora “lo cunto” che contiene tutti “li cunti”. Ossia il mondo è ancora “solo” un contenitore delle imprese fantastiche della disubbidienza dell’uomo per affrancarsi da quanto non conosce e lo minaccia. Non è un caso che in un universo siffatto, gli appetiti dominino incontrastati. Sono anzi essi, il motore delle storie e degli eventi. In questo universo, nel quale la superstizione e la fede si confondono, l’arbitrio e il potere dominano, l’uomo si afferma come materia che non piega il capo, che resiste agli affronti, che si sforza di imprimere un’altra direzione al mondo. Così laddove nel cinema di Garrone, così come l’abbiamo conosciuto sinora, il reale sovente s’impennava per tracciare parabole fantasmagoriche insinuando sospetti sulla tenuta del suo tessuto, ne Il racconto dei racconti il regista è come se filmasse soprattutto la realtà materiale del suo set, la realtà di un lavoro, il cinema, che attraverso le articolazioni di una produzione complessa, gli permette di riscoprirne tutte le potenzialità. Non è un caso che in conferenza stampa Garrone abbia invocato, a proposito degli effetti speciali ma la cosa si può estendere a tutto il suo film, un’aspirazione al nitore del cinema delle origini. L’artificio non vive nella banale verosimiglianza del digitale iperreale, quanto nello scarto tangibile fra la materia e l’immagine. Ed è esattamente questo equilibrio, la visibilità dell’effetto speciale, a fare la ricchezza del film: perché se da un lato l’effetto speciale è presentato come documento di un lavoro, dall’altro il mondo (ossia i luoghi, scovati dal regista con la collaborazione di Gennaro Aquino) è offerto come un manufatto fantastico, a tratti anche ostile, nella sua bellezza colta come alle soglie della storia. La reinvenzione del cinema di Garrone va di pari passo con la creazione di un mondo altro. Eppure, come nei migliori viaggi attraverso lo specchio, alla fine del peregrinare ci si ritrova, ancora, nel mezzo del cammin di nostra vita. Il funambolo in equilibrio sulla corda in fiamme, colto a metà del suo periglioso gioco, non può non ricordarci Garrone stesso e, per inevitabile riflesso, lo spettatore, chiamato a condividere un’esperienza “inenarrabile”. Ed è questa sospensione, per estensione anche quella dell’incredulità, a fare la forza del singolare film di Matteo Garrone, che riporta al cinema italiano quel piacere del rischio che una volta, invece, sembrava essere una parte consistente del fare cinema. Inevitabile, dunque, che Il racconto dei racconti possa andare incontro a delle incomprensioni o, semplicemente, a degli apprezzamenti di principio dettati semplicemente da appartenenze e lealtà trasversali. Un peccato, perché il cinema italiano degli ultimi anni non ha offerto poi tanto spesso lo spettacolo, questo sì davvero rigenerante, di un autore che si reinventa pur restando fedele a se stesso, spostando però il suo lavoro in territori per lui ancora inesplorati. Non fosse che per questa sola ragione, Matteo Garrone merita tutto il nostro rispetto. (15 maggio 2015)