CINEMA PARADISO

La regola del gioco


Quando l'avvenente pupa di un boss del narcotraffico avvicina il reporter Gary Webb, l'ultima cosa a cui questi pensa è di essere vicino a uno scoop sensazionale. E invece, risalendo la catena alimentari degli spacciatori nicaraguensi arriva a scoprire un verità che scotta: la CIA consentiva o agevolava lo spaccio negli Stati Uniti per finanziare i Contra in chiave anti-sandinista. Quando Webb pubblica il suo dossier il bubbone scoppia: prima piovono consensi ed elogi, ma ben presto la CIA passa al contrattacco e la vita privata e professionale di Webb diventa insostenibile.Una storia molto più che interessante: una sferzata sull'addome di zio Sam, che colpisce là dove il dolore è maggiore. Una delle pagine più oscure della cosiddetta esportazione della libertà statunitense, che, di fronte al rischio tangibile di un Centro America sempre più comunista, ha fatto ricorso a ogni tipo di mezzo, legale o illegale, per arrestare l'ondata. Ma il risvolto più doloroso dell'inchiesta di Gary Webb riguarda le vittime sacrificali del meccanismo, le solite: i neri di South Central, L.A., i più disagiati e bisognosi in generale, offerti in pasto alla servitù della droga pur di ungere la macchina dell'anti-comunismo. Di fronte a una verità così scomoda non si fatica a comprendere le ragioni della persecuzione della CIA ai danni di Gary Webb. Ma è solo uno degli elementi su cui si concentra l'attenzione della trasposizione cinematografica del libro di Nick Schou, affidata alla regia di Michael Cuesta (Six Feet UnderHomeland): la pubblicazione di Dark Alliance, il casus belli giornalistico, avviene circa a metà film e pari attenzione viene dedicata allo sviluppo dell'indagine e alle conseguenze della pubblicazione del dossier. Purtroppo, nonostante un soggetto di ferro, puro materiale da cinema di denuncia della New Hollywood, e un cast memorabile, che affianca a Jeremy Renner caratteristi irriducibili come Ray Liotta, Andy Garcia e Oliver Platt, la trattazione della materia lascia a desiderare, principalmente a causa dell'adattamento di Peter Landesman (Parkland). La parte di reportage avvince, riuscendo a comunicare la necessaria tensione e compartecipazione emotiva - in primis il momento in cui Webb scende dall'auto a South Central, sfidando il pericolo per constatare fino in fondo gli effetti devastanti che derivano da una società divisa in caste, in cui i paria possono fungere da vittime sacrificali per un interesse più elevato. Ma è l'indagine nel privato di Webb a denotare una fragilità da racconto televisivo, un quasi-mélo di vita familiare che ricorre a semplificazioni e forzature evidenti, finendo per diluire la forza di un'indagine temeraria. Infine la rinuncia al racconto per immagini del tragico epilogo e della prosecuzione giudiziaria della vicenda, in cui il regista quasi sceglie di ritrarsi e di comportarsi come gli agenti segreti del film, che più volte avvertono Webb di non avvicinarsi a temi "troppo sensibili". Cuesta preferisce chiudere su una nota di speranza e di orgoglio residuo, contribuendo anche lui, a suo modo, a "insabbiare" i postumi dell'indagine, anziché denudarla nei suoi aspetti più sgradevoli e gridare al mondo che un uomo è morto nel tentativo di raccontare una verità sepolta da più di dieci anni. Se La regola del gioco (terribile traduzione italiana di Kill the Messenger, che rievoca in maniera insensata il capolavoro di Renoir) riesce a salvarsi e a mantenere il vigore di una denuncia fondamentale, lo si deve quasi interamente all'interpretazione di un attore sin qui sottoutilizzato come Jeremy Renner, credibile dalla prima all'ultima scena in un ruolo di ostinato autolesionista che richiama in parte l'indimenticabile William James di The Hurt Locker.