CINEMA PARADISO

Il clown ebreo che fu costretto a trasformarsi in cane per i nazisti (ilmanifesto)


A Berlino «Adam Resurrected», il film di Paul Schrader che affronta il disagio psichico dei sopravvissuti ai lager Adam Resurrected di Paul Schrader, basato sul romanzo dello scrittore israeliano Yoram Kaniuk del 1969, comincia laddove tutti i film sull'olocausto si fermano: il paesaggio psichico dei sopravvissuti ai lager. La trama è semplice. Adam Stein era un clown felice e di discreto successo negli anni 20 a Berlino. Poi un giorno lo vennero a prendere in teatro, assieme alla moglie e le due figlie per portarlo come tanti altri ebrei in un lager. Sopravvive. Lo vediamo all'inizio del film a Haifa, anno 1962, seduto in una stanza, sguardo nel vuoto, finché arrivano alcuni uomini in divisa (sanitaria) per portarlo via, in una clinica in mezzo al deserto, un cubo bianco nel nulla. Come mai? Cos'era accaduto? Un montaggio a tratti secco e veloce ma acuto segnala i passaggi mentali a random tra quel «dopo» passato da Adam (interpretato magistralmente da Jeff Goldblum) nel mondo surreale tra i sopravvissuti in clinica, numeri impressi sul braccio, per essere curato dal trauma e il «prima» quando fu costretto dal diabolico comandante Klein (un impressionante Willem Defoe) a condurre per oltre un anno una vita da cani, nel vero senso della parola: Adam dovette fare il secondo cane di Klein per divertirlo e distrarlo dalle nefandezze quotidiane. Lo fece per salvare la sua famiglia, così come dovette suonare il violino per accompagnare il cammino di coloro che tutti i giorni entrarono nei forni: una delle immagini più potenti del film riassume l'intero genocidio nel movimento di macchina dalla colonna silente di persone in cammino verso l'alto per inquadrare il fumo bianco che si innalzava nel cielo. Non era riuscito a salvare moglie e figlia, la seconda sopravvissuta lo rinnega accusandolo di collaborazionismo. Crollo nervoso. I diversi piani del racconto sono segnati visivamente dall'alternarsi di colore e bianco e nero, omogeneo e sgranato per le inumane condizioni nel lager, mentre i personaggi nelle immagini a colori sono spesso inseriti in abbaglianti bianchi e/o scene volutamente sovresposte dentro la clinica per farci entrare nelle loro follie, nei viaggi mentali assurdi e le cure alternative con droghe per alleggerire le pene di chi aveva visto il livello più basso della vita toccato da esseri umani. Adam porta la medicina più potente: il sense of humour e un cinismo reale. Le reminiscenze della vita da cani, le vive nella relazione sessuale con l'infermiera, ma soprattutto nello scoprire un ragazzo tenuto nascosto in una stanza perché si crede davvero un cane: cammina a quattro zampe, anziché parlare abbaia e morde. Adam si era perso nei meandri della memoria e si ritrova piano piano nell'avvicinarsi al ragazzo, dapprima con rabbia, poi con ironia e sempre di più con affetto sincero. «Una vita per una vita», gli aveva detto Klein quando stavano per arrivare le truppe alleate chiedendogli di sparargli alla testa, ma Adam uccise il cane (vero) e se ne andò lasciando Klein lì. Ma se l'era portato dietro nell'anima, assieme alle umiliazioni, finché un giorno fa ricordare crudelmente l'accaduto a tutti i compagni di dolore e nella notte decide di spararselo lui il colpo in testa. In mezzo alle dune del deserto. Qui il film si fa parabola brechtiana, da una fiamma nella sabbia appare il comandante Klein e chiede a Adam di agire come aveva agito allora, ma la scena assume un effetto straniante nel sonoro: il richiamo del suo nome arriva dal ragazzo che reclama la sua presenza. Adam torna in sé, definitivamente, fa guarire se stesso e il ragazzo. Adam è risorto. Una coproduzione tedesco-israeliana passata come Berlinale Special (perché non in concorso?) che fa riflettere sulle posizioni rivendicative dell'Israele oggi, ma anche sul come trovare la riconciliazione senza dimenticare o stravolgere il passato: gettando luce sui fatti accaduti e non riscrivendoli o tacendoli.