La ricorsiva attualità di alcuni miti rimane da sempre il marchio stesso del loro status, assurti come sono ad una forma di emblema narrativo (e poetico) di tutta una società che ad essi si è affacciata e dalla quale essi stessi sono scaturiti. Essendo capace di polarizzare le ambizioni di un’epoca e/o di una classe o cultura di riferimento, un mito – inteso in senso esteso – rappresenta infatti la società, o una comunità, assurgendo ad emblema e simbolo riconosciuto e riconoscitivo della stessa. Mito è sì parola (mythos) e la tradizione culturale di questo concetto è sicuramente molto più profonda e complessa, ma la sua validità in termini di riferimento culturale è sicuramente dettata dalla sua capacità di ricorsività, permanenza e continuità. Per alcuni miti anche la sua eternità. Questo – si potrebbe affermare – è lo statuto di validità del mito. O almeno, se si vuole essere più pragmatici e meno malinowskiani, di un mito che funziona e continua a funzionare.

Nelle civiltà primitive il mito adempie a una funzione indispensabile: esprime, rafforza, codifica le credenze; salvaguarda i principi morali e li impone; garantisce l’efficacia delle cerimonie rituali e offre regole pratiche ad uso dell’uomo (B. Malinowski)

Per Barthes certamente il mito poteva sembrare tutto ciò che può subire le leggi del discorso, ma al tempo stesso, non è di certo “tutte le parole” del discorso. È una parola specifica. E se si guardasse più da vicino l’antonomasia scaturita dal panorama iconico della cultura artistica e narrativa italiana degli ultimi cinquant’anni ci ritroveremo sicuramente davanti a dei nomi assolutamente rappresentativi, proprio in questo senso. Tra questi il deonomastico più importante e fortunato in termini descrittivi e sociali – e quindi non solo artistici – è sicuramente il fantozziano. E se proprio Fellini (che condivide l’altro grande deonomastico) disse che da piccolo aveva sempre sognato di diventare un aggettivo chissà come l’avrebbe presa il rag. Ugo Fantozzi a sapere che le sue fattezze sarebbero da lì a poco diventate emblema di un mondo tutto italiano che sarebbe durato ben oltre il suo andare in Paradiso, contro tutti, nel tempo o ben al di là della sua clonazione. 

Fellini

Probabilmente non si sarebbe stupito più di tanto di diventare l’epopea del grottesco, del tragicomico, della sfiga cronica e del servilismo: di essere dunque emblematizzato come il mito malinowskiano di codificatore di credenze, salvaguardia di principi morali e di regolatore dei comportamenti dell’uomo, però all’incontrario. Bell’onta, sicuramente. Povero Pupazzi. Di solito, d’altronde, gli epiteti con cui ci si riferiva a lui erano qualcosa come “merdaccia”, “coglionazzo” o un più linguisticamente creativo “Fantocci”. Poteva andargli peggio che diventare un aggettivo grottesco, tutto sommato. A ben ricordare gli è sicuramente capitato di peggio. Almeno le due z sono al posto giusto. Probabilmente, dopo una triste smorfia da cane bastonato per l’accaduto, si sarebbe risollevato e col doppio saltello si sarebbe sfregato le mani e sarebbe di nuovo saltato in una nuova gag, accettando “l’umanità” della sua nuova catalogazione linguistica e simbolica. 

Sempre più tristemente, infatti, connotato in negativo e perseguitato da questa nuova nuvola impiegatizia, il fantozziano ha perso i caratteri nobili, fallimentarmente romantici e da eroe nazional popolare (che pur facevano parte del suo personaggio a tutto tondo), per lasciare, in questo aggettivo e in questo uso più comune, soltanto una connotazione di persona e/o evento “penoso e ridicolo” (Treccani). Come si evince dal mirabile studio di semiologica fantozziana di Stefano Bartezzaghi, che oggi si può trovare nell’edizione Rizzoli della trilogia del suo autore Paolo Villaggio, la realtà sociale e la fantasia dell’autore si muovono dalla stessa sostanza viscosa della quale ridiamo, dalla quale vorremmo tenerci lontani, e nella quale, probabilmente, siamo ancora immersi. Ah, certamente. E dalla quale siamo ancora quotidianamente e tragicomicamente vinti.

“Il fantozziano è questo. Da quando, dietro le fattezze del suo umile rappresentante in Terra, lo abbiamo individuato e nominato, lo abbiamo goduto e ne abbiamo riso, abbiamo anche incominciato ad arrenderci al suo assedio” (S. Bartezzaghi)

Oggi ci riconosciamo in uno stilema di italiani, seppur reclusi e resi uniti nel recinto delle proprie case in quarantena, ognuno con le proprie caratteristiche di appartenenza a comunità, identità specifiche e quant’altro, ma sempre italiani. Inesorabilmente tali e uniti nel nostro comun tratteggio. Inseriti in un sistema e in una cultura sociale che ride certamente ancora dell’inferiore Fantozzi e delle sue disgrazie, ma poco si rende conto di essere una possibile fonte di rappresentazione per il ritorno di un nuovo Fantozzi. Tutto sommato il ragionier Ugo Fantocc…ehm.. Fantozzi aveva un lavoro fisso, una famiglia stabile, una macchina sua, una (seppur discutibile) moglie, delle (seppur mooolto discutibili) figlia e nipote, una pensione, due soldi da spendere per dare da mangiare ai colombi, per pagare gli scotch a Calboni e Filini o per andare a Capri in una suite con la signorina Silvani.

E si, certo, sogna una tresca amorosa da sempre con la collega, ma il matrimonio regge, a differenza delle grandi solitudini a cui sono destinati gli altri apparenti “fortunati” della saga. Anzi, Fantozzi si incazza con Cecco il Fornaio quando vede che la Pina compra più sfilatini del necessario. E gli va a parlare da uomo. Così come un senso dell’onore aleggia talvolta in pochi (ma grandi) successi del ragioniere, come nella mitica rivincita a biliardo con l’On. Cav. Conte Diego Catellani o i 92 minuti di applausi per la storica disamina in merito a “La Corazzata Kotiomkin”. Oggi, un personaggio come questo, è davvero un’ambizione per molti. E non lo si dice di certo come paradosso. Ci si può credere davvero, anche se non si è nostalgici sognatori.

Uno stagista, magari laureato, che non prende una lira per lavorare, sperando che una botta di culo possa regalargli un contratto stabile nel settore dove magari – possibilmente, umanamente (col tono fantozziano) – ha passato anni e speso per studiare, vincolato dal marketing a farne parte, come consumatore o come lavoratore obbligato ad interim, una possibilità remota (quasi leggendaria) di pensionamento, un mutuo che difficilmente potrà essergli concesso per una casa, una percentuale di matrimoni terminati in divorzio nei primi cinque anni, amicizie che si rattrappiscono pian piano nel tempo all’appannaggio di (sempre meno) messaggi di gag esilaranti su Whatsapp, un senso etico sempre più nascosto dall’eroismo da tastiera e altre prodi gesta dietro avatar. Sono immagini talmente amare che, una volta sentite, provocano quasi compassione, certo, ma anche talmente integrate nel nostro vivere che tutto sommato le lasciamo andare nel “così è”, come formula finale di una preghiera a cui abbandonarsi sperando un fatidico colpo di fortuna. Come se potesse apparire, così, d’improvviso, come il San Pietro sulla traversa del campo di periferia nella partita di team-building aziendale.

E proprio qui che il fantozziano di ritorno, per usare un retaggio di stampo De Mauro, gioca ancora le sue carte più attuali e più puntualmente rappresentative, così come l’analfabetismo che non solo provoca i crolli come quello del settore editoriale tout court, ma anche quello della capacità media di comprensione di un testo e/o immagine base. Così come certamente quella di sé stessi e del proprio considerarsi Superiori a un qualunque Inferiore, di cui ridere come se fosse ormai lontano nel tempo, in un’Italia che non esiste più. Una cognizione che dovrebbe competere, ad esempio, ad un paese che mediamente si porta alle spalle, oggi, tredici anni di istruzione scolastica (diplomati sono circa il 60% degli italiani, il 20 percento in meno della media europea), oltre che anni universitari non necessariamente terminati con una laurea (in Italia la media di laureati è del 20% circa, contro la media europea del 38%) e che si ricorda di se stesso come il BelPaese, La Dolce Vita e come il Paese della Grande Arte e della Grande Cultura. Villaggio e il suo eroe hanno caricaturizzato la società del tempo, evidenziandone i comportamenti più grotteschi, e, da un certo punto di vista, il mondo si è tragicamente – quasi per osmosi – ispirato al mondo di Fantozzi, proseguendone le esatte terminazioni più spietatamente grottesche. Le macchiette non si sono certo estinte ma, anzi, sono sempre, sdoganate da alcun retaggio romantico o idealistico, più diventate istituzionalizzate e onnipresenti che ormai sembra non ci si faccia più caso, integrate come sono nel nostro vivere quotidiano. 

Le dirette Facebook del Presidente del Consiglio sull’emergenza di questi giorni, eroicamente (o euristicamente) volte a screditare alcune dicerie e alcuni Ministri, alcuni dei quali sono soliti presentarsi in pose social sempre più nazional popolari, in spiaggia o ai citofoni di turno, i commenti dei nuovi boomer che condividono materiale e informazioni scritte da un signor nessuno (quando non è un del tutto creato algoritmicamente) senza alcuna capacità critica e analitica, purtroppo non pagato, costretto a lavorare di velocità perché se no il SEO penalizza il suo articolo click-bait, i tuttologi da social network che – pur senza leggere un libro, che pur però direbbero sicuramente di conoscere bene – spaziano da competenze tecnico-scientifiche sul 5G a quelle mediche e patologiche sulla portata del Corona Virus a quelle finanziario-economiche degli Eurobot o del MES. Per non parlare tutta quell’impostazione estetica che costringe tutte le Cita Hayworth a dover diventare necessariamente Rite sull’Instagram: pena crocifissione in sala mensa o -peggio ancora- nessun like. Una pletora di facciate talmente evidenti e macchiettistiche che non sfigurerebbero di certo nell’empireo narrativo fantozziano. Ce lo chiedono i Mercati is the new L’ha ordinato il Megadirettore. E ricordiamo che è sempre “un GRAN direttore”.

I miti sono fatti perché l’immaginazione li animi. (Albert Camus)

Il ragionier Ugo Fantozzi, matricola 1001 barra BIS, era già certamente “una curiosa sopravvivenza residuale, come i telefoni a muro o i banchi di scuola con il foro per il calamaio.” (S. Bartezzaghi, Così Fantozzi), nato così tra le pagine de l’Europeo e figlio del diario del collega Fracchia (il diario sarà poi il primo libro, del 1968, suddiviso nelle stagioni dell’anno), ma in grado di trascendere il suo tempo per diventare una piccola figura eterna all’italiana. Ecco una delle grandezze sicuramente attribuibili al personaggio di Villaggio e alla sua fortuna critica, letteraria e cinematografica. Ed ecco la sua validità di mito. O, ancora una volta, la sua funzionalità. Certo che si viaggia con la fantasia. Ma il permesso – strutturale – di farlo è un’altra prova a favore della validità del mito stesso.

Certamente l’abbigliamento è cambiato: la mutanda ascellare aperta sul davanti e chiusa pietosamente con uno spillo da balia (pregasi lettura in tono fantozziano) ha lasciato il posto ad altrettante grottesche terminazioni di vestiario, come il pantalone/pannolone sempre più penzolante e stringente sulla caviglia, naturalmente in vista, come dei moderni Ali Babà hipster, o altre caricature facilmente rintracciabili in qualunque sguardo nemmeno così tanto fenomenologico. Son cambiate le terminazioni linguistiche e lessicali: non c’è più il grande “megadirettore galattico” o la “megaditta” e gli amministratori delegati sono magicamente diventati “CEO”, le chiamate al telefono sono divenute “call”, quelli della ditta che fa lo stesso nostro prodotto sono “i nostri competitor” e altri anglicismi prestati alla validità del nostro dire. E non certo per mancanza di vocabolario proprio, quanto più per tono di suggestione. Per istituzione, quasi. È vero. Sarebbe certamente difficile oggi a Milano vedere un Megadirettore come il Duca Conte Maria Rita Vittorio Balabam, per molti impiegati figura astratta e nemmeno realmente esistente, ma solamente se evitassimo di rifarci all’idolatria reverenziale per qualsiasi figura di spicco del marketing che si vede come una sorta di ologramma solo in call Skype o il tanto rivalutato Microsoft Teams. Sarebbe quasi inopportuno oggi dire “no, mi scusi, ingegnere, ho una chiamata di lavoro”. Funziona di più con “call per discutere della strategy e del business plan per battere sul timing i competitor”. Pace del compagno Folagra, che non aveva ticket restaurant, ma mangiava comunque da solo.

E di corrispettivi del Mega-Direttore Clamoroso Duca Conte Pier Carlo Ingegner Semenzara (recentemente riscoperto in featuring Youtube con Young Signorino) o il Direttore Totale Dott. Ing. Gran Mascalzon. Di Gran Croc. Visconte Cobram, CEO molto comuni, che oggi tengono incontri di formazione dove dipendenti di ogni sorta pendono dalle labbra, prendono appunti e il cui successo citano come se fosse il proprio. Di azionisti, poi, se ne incontrano a iosa. Ma non tutti varano una barca col cardinale come la Duchessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare, ma li si può facilmente trovare in un cocktail party su qualche rooftop del centro, inondati di servilissimi e distintissimi ossequi, soprattutto se circondati con signorine forse con caviglie e toni più fini di quelle della signorina Silvani, e un umorismo sicuramente inferiore a quello della mitica Anna Mazzamauro, ma dal medesimo tono arrivistico, probabilmente pagate per essere lì a far fare bella figura al personaggio di turno. Il tutto assolutamente parimenti grottesco se solo fosse caricaturizzato con una penna acuta, attenta e affilata come quella di Villaggio. 

“Dopo tutto io credo che i miti e le leggende siano in gran parte fatti di ‘verità’, e in realtà presentino aspetti della verità che possono essere recepiti solamente sotto questa forma; e certe verità furono scoperte molto tempo fa e ritornano sempre.”
(JRR Tolkien)

Già. Fantozzi ha perso, come ogni volta, è passato, forse anche di moda. Ma il fantozziano no. IL fantozziano ha anzi stravinto, ci ha stracciato, come già diceva Bartezzaghi. E se Fantozzi e i suoi mitici amici-nemici ci hanno abbandonato (come il suo autore) non lo ha fatto il suo mondo di fondo. Esso permane in caratteri molto meno gerarchici e differenziali, molto meno romantici, molto meno ascrivibili ad una certo buonismo o patetismo di fondo, ma si amalgama in altrettante diramazioni connotanti un panorama italiano da lavoratore precario, probabilmente più istruito (almeno formalmente, di Fantozzi), che ambisce alla poltrona in pelle umana e qualche pianta di ficus esattamente come il ragioniere, ma in forma di smart-working con tutti i comfort del caso, in una confortevole gabbia di vetro, sognando una tresca amorosa con una collega conosciuta in chat, che è annoiato dalla sua famiglia, fatta un po’ per retaggio antico o per contingenza che per necessaria virtù, etica o ideale. A ben vedere sembra proprio che proprio quelle caratteristiche più bonarie e romantiche del personaggio di Fantozzi sono sempre più lontane, mentre quella sua rappresentazione teatrale e grottesca resta la medesima che si mostra nel quotidiano.

Il Ragionier Ugo Fantozzi, impiegato servile fino all’umiliazione, non è certo facilmente rintracciabile se si guarda al proprio collega di fianco. Vero. Invece l’eterno stagista di oggi, non pagato, che offre il suo contributo servilmente con la vacua e vana speranza di “fare carriera” sembra così diverso dal mito fantozziano? Sicuramente fa meno ridere. Ed empatizziamo con lui come con la nostra condizione. La nobiltà della perseveranza è materia anche dello stesso personaggio del ragionier Fantozzi, dopotutto. Che sia il mondo intorno, il linguaggio e la moda ad essere cambiati intorno è ovviamente chiaro. Che si è noi che si immagina e si esagera troppo può anche essere, ma la creta è quella che ci troviamo comunque tra le mani. Che la realtà fantozziana sia ancorato solo all’appannaggio di un mito ormai sorpassato risulta – ahinoi – ben più difficile da affermare.