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Il dubbio - un caso di coscienza

Post n°15157 pubblicato il 01 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

Kaveh Nariman è un medico legale che lavora in obitorio. Una sera investe accidentalmente con la sua auto una famiglia che viaggia in moto. Il bambino cade e batte la testa in modo apparentemente privo di conseguenze. A distanza di poche ore arriverà il suo cadavere. La diagnosi dell'autopsia parla di avvelenamento per botulismo ma il medico ha il dubbio che la causa possa addebitarsi all'incidente. Avrà il coraggio di chiarire la situazione?
Vahid Jalilvand cita, a sostegno della sceneggiatura che ha scritto con Ali Zarnegar, un'affermazione dello scrittore svizzero Rolf Dobelli: "I coraggiosi e gli impavidi sono stati uccisi prima che potessero trasferire i loro geni alle generazioni successive. I rimanenti, cioè i codardi e i gentili, sono sopravvissuti. Noi siamo la loro progenie".

È del coraggio delle proprie azioni che questo film ci parla e, in particolare, delle conseguenze che il timore di assumersi delle responsabilità può avere sulle vite altrui.

Al contempo mette a confronto, come accade anche nel più noto cinema di Asghar Farhadi, due diverse classi sociali mettendole a confronto ed indagandone le reazioni di fronte ad eventi che ne mettono in gioco l'esistenza. Kaveh non solo è un medico noto per la sua meticolosità ma è anche sposato con una collega altrettanto scrupolosa. La loro abitazione, in cui hanno appena traslocato e in cui dominano ancora gli scatoloni, denuncia il loro status economico elevato. La famiglia che deve affrontare la morte del bambino vive in condizioni di indigenza che hanno spinto il padre ad acquistare pollame a basso prezzo senza sapere che si trattava di volatili morti per malattia.

La convinzione di essere stato truffato procurando la morte al primogenito non gli dà pace. Così come non dà pace al medico l'idea di aver invece provocato il decesso anche se la causa non appare in maniera del tutto evidente. Con però un elemento che fa la differenza. Mentre il padre agisce spinto dalla disperazione e dal senso di colpa non altrettanto fa il dottor Nariman il quale tace su quanto accaduto e rinvia ciò che dovrebbe invece affrontare a viso aperto. Il film va così oltre il caso specifico per interrogarsi (e interrogarci) su quanto, in ogni società e non solo in quella iraniana, l'occultamento della verità sia un veleno diffuso dagli effetti letali.

 
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Gotti

Post n°15156 pubblicato il 01 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

John Gotti dice rivolgendosi direttamente al pubblico che la vita di un criminale finisce in due modi: in galera o con la morte e a lui sono successe entrambe le cose. Quindi lo vediamo anziano, pelato e provato da un cancro mentre riceve visita in prigione da suo figlio, che vuole la sua approvazione per firmare un accordo con i procuratori e accettare una condanna breve. Il padre è contrariato e risponde che bisogna mentire anche se si ha ancora l'etichetta della refurtiva addosso e che non smetteranno mai di tormentare suo figlio perché è un Gotti. Quindi questo racconto cornice si apre, alla storia di Gotti Sr., da quando era relativamente giovane nella mafia newyorkese fino alla sua cattura e, come anticipato nell'incipit, alla morte. Si rompe poi di nuovo la quarta parete nell'excipit, in cui per un'ultima volta Gotti Sr. si rivolge alla platea.

Stroncato dalla critica americana per gli scimmiottamenti di altri grandi registi e per un punto di vista quasi autocensurato sui misfatti del mafioso protagonista, il film di Kevin Connolly ha anche un problema di incertezza e cerca di essere troppe cose insieme.

Debitore, nelle prime versioni di una lunga gestazione, dell'autobiografia del figlio John Gotti Jr., "In the Shadow of My Father", il film ardentemente voluto da John Travolta, Gotti - Il primo Padrino, risulta indeciso se raccontare la storia del padre o del figlio e non riesce bene in nessuna delle due cose. Da una parte sembra sostenere la tesi della quasi innocenza di Gotti Jr. e della sua persecuzione da parte del governo con grande spreco di soldi pubblici, dall'altra riassume eccessivamente la storia di Gotti Sr. senza mai trovare un momento di forte respiro, appoggiandola sulla voce over di Travolta e interessandosi in fondo molto poco all'ambiguità del personaggio. 

Gotti uccide un uomo in una delle prime scene, ma è l'unico crimine di cui si macchia di persona, per il resto lo vediamo complottare per prendere il posto del suo boss, nella famiglia Gambino, e sappiamo che farà eliminare dai suoi l'uomo che ha investito suo figlio. Non c'è traccia di traffici illeciti, racket, prostituzione o altro, inoltre Gotti è un uomo di famiglia qui del tutto fedele e che si tiene lontano da vizi come alcol e cocaina, insomma un padre praticamente modello.

 
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Creed II

Post n°15155 pubblicato il 01 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

Adonis Creed ha tutto. Tutto quello che un atleta e un uomo possono desiderare: il titolo di campione del mondo dei pesi massimi e l'amore di Bianca, a cui chiede di sposarlo. Ma a un passo dalla felicità, il passato torna e lo sfida. Il suo fantasma ha il volto e i muscoli di Viktor, figlio di Ivan Drago, che trentaquattro anni prima ha ucciso suo padre sul ring. Sconfitto da Rocky Balboa, abbandonato dalla consorte e dimenticato dal suo paese, Ivan cresce il figlio a sua immagine e cerca il riscatto al suo fianco. Adonis accetta di combattere contro Viktor ma Rocky non ci sta. Almeno fino a quando il suo pupillo non comprenderà la sola cosa per cui valga la pena incassare pugni e assestarne: la famiglia.

Che cosa cerchiamo (da sempre) in Rocky? L'emozione, il masochismo, il punto di rottura della carne, l'allenamento 'ecologico', l'avversario postumano, il confronto sul ring, l'eccesso, gli snodi narrativi che sfidano l'improbabile, in una parola la ripetizione che rinnova il conto aperto dell'eroe col suo pubblico.

Modesto, taciturno e tenace, Rocky Balboa si rialza ogni volta e lo paga a pugni chiusi e ben piazzati. Tre anni dopo Creed, spin-off di Rocky che rinfrescava la saga contrapponendo il carisma ascensionale di Michael B. Jordan al crepuscolo malinconico di Sylvester Stallone, Creed II rinnova il capitale simpatia e sigla l'addio definitivo a Rocky. Perché Hollywood adora uccidere e poi onorare il passato rifacendolo ad nauseam. Il seguito, il seguito del seguito, è la sua mania, il suo dramma, la sua maledizione. Ma che importa, quando si tratta di Rocky nemmeno il pubblico getta la spugna. 

Se il Creed di Ryan Coogler è una lettera d'amore a Rocky, il sequel di Steven Caple Jr. è congenitamente legato a Rocky IV, l'atto di fondazione del personaggio Jordan/Creed. Pessimista sugli sviluppi della perestrojka e del socialismo riformato di Gorbaciov, Stallone introduceva nella saga un campione sovietico, stereotipo dell'atleta durante la guerra fredda e veicolo propagandistico, secondo l'immaginario americano, del regime totalitario. Nel 1985 Apollo Creed moriva sul ring e sotto i colpi di Ivan Drago, caricatura comunista e parodia massiccia del rivale di Stallone al box office dell'epoca: Arnold Schwarzenegger.

 
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Hitler contro Picasso

Post n°15154 pubblicato il 01 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

"L'avete fatto voi questo orrore, maestro?", chiede l'ambasciatore nazista Otto Abetz a Pablo Picasso davanti a Guernica. Picasso rispose: "No, è opera vostra". 
Quando si parla di arte, quella vera, c'è spesso in latenza un sentimento di giustificazione del perché la si crea, o perché la si vuole possedere. Questo film narra lucidamente delle tematiche drammatiche che via via stanno andando nel dimenticatoio: la vicenda del nazismo e le sue conseguenze. E la narra da un punto di vista preciso, di cui non si è molto parlato: il trafugamento delle opere d'arte in quel periodo e la gara - dettata dall'ego e dal potere - di due personaggi tragici e surreali come Adolph Hitler e Hermann Göring nell'averla tutta per loro.

Un Bellini a te e un Botticelli a me; un Matisse nella tua magione e io mi prendo un Van Eyck. Sembra sia andata proprio così in Hitler contro Picasso e gli altri, film documentario prodotto da Nexo Digital con la collaborazione di Sky Arte.

Si scoprono gli altarini di una guerra che ha portato morte, disperazione e ancora morte. Un decadimento dell'essere umano e delle sue espressioni più alte. Perché l'arte - i dipinti, le sculture, le produzioni monumentali e architettoniche, uniche e irripetibili, delle nostre città europee - è ciò che, di fatto, rimane nella storia. L'arte è la testimonianza della nostra esistenza. Per questo motivo Christopher A. Marinello, avvocato italo americano di stanza a Venezia, ha deciso di lottare per la riacquisizione dei patrimoni artistici di alcune famiglie depredate dai nazisti, e isolate - e spesso cancellate - nei campi di concentramento. 

Hitler contro Picasso e gli altri è un progetto ambizioso e ricco di documentazione e materiali d'archivio interessanti e poco scandagliati. Il giovane regista Claudio Poli (Cremona, 1986) ha realizzato un percorso che andrebbe guardato e studiato più volte, perché le tematiche trattate sono diverse e girano tutte intorno al saccheggio di incredibili opere d'arte da collezioni private, fondazioni, musei e chiese - un esempio per tutti: il polittico de L'Agnello Mistico, il capolavoro realizzato dai fratelli van Eyck per la Cattedrale di Ghent, che Hitler fece sparire - con dei focus incentrati su alcuni episodi particolari: dal ritrovamento, nel 2012, della collezione Cornelius Gurlitt, alla mostra - diventata successivamente iconica e fondamentale per la storia dell'arte contemporanea e la sua curatela - sull'arte degenerata del luglio 1937. Un'esposizione che rilevò più di 2 milioni di visitatori.

 
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Animali fantastici. I crimini di Grindelwald da bestmovie

Post n°15153 pubblicato il 01 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

“Animali fantastici. I crimini di Grindelwald” (Fantastic Beasts: The Crimes of Grindelwald) , 2018) è l’ottavo lungometraggio del regista-produttore inglese David Yates.
Un numero due senza sbavature per chi si accontenta di pochissimo, un filmetto di pomeriggio sonno lento per chi vuole un pasticcino dolce e un groviglio spaurito per chi pensa ad un divertimento evanescente. Un numero due con in arrivo altri tre (dallo stesso regista) e dalla scrittura e sceneggiatrice J.K. Rowling. Che dire Harry Potter e spin-off, fantasia sequel e pre-oscurità di ogni dove e luogo. Basta solo accontentarsi appunto…
Con una certa mediocrità e un gusto del falso bello, con una ripresa degna di omaggio e un silenzio roboante ecco che la fantasia regredisce e i sogni (per chi scrive) svaniscono. Una noia e una certa lunghezza inopportuna sbandierano pellicole magniloquenti di vuoti strutturali e di regie sapienti all’uopo (tragitto della serie infinita).
Ovvio dire dove eravamo, …(erano) rimasti che…. tutto gira attorno alle vicende di Newt Scamander e Albus Silente che cercano di ostacolare il mago oscuro Gellert Grindelwald.
Film di noir e oscurità quasi assolute. Tutto inverecondo e senza minimi tentennamenti con sceneggiatura aggrovigliata e forse inutile. Tra New York, Londra e Parigi o viceversa cambia poco il cinema fantasy ritrova pubblico.
Succede che alla proiezione di un film (altro) si arriva tardi, si va avanti in centro e tra i film nuovi di un cinema mono-sala aperto (cosa rarissima quasi viene da dire).. ecco imbattersi nella locandina della ‘Rowling’ production-pen . Si arriva quindici minuti primi….e fila di persone. Proiezione di 15 minuti di ritardo per fare entrare tutti. In una sala grandissima 200 spettatori per lo più giovani e giovanissimi….ti rincuori per il cinema oggi nel nostro paese e persone che hanno voglia di grande schermo….purtroppo ti rincuori meno uscendo dalla sala (a proiezione finita). Un quasi addormentarsi con i colpi di scena di cui pare il paradigma di certi film che paiono normali e si collegano a tutta la serie….che pare imprescindibile…mentre per molti della sala no. Si sente il riso e arriva spesso, soprattutto nella prima parte, il pubblico conosce a memoria i tutti personaggi e i cosiddetti sottostesti ( sottotesti?..) che forse sono solo superficiali o meglio luoghi comuni veri o messaggi subliminali di vera finzione.
New York, Parigi e Londra viste belle e da noir, tra classico e aggiustamenti virtuali a go-go. Panorami che attirano le attenzioni e personaggi tra reali e irreali che fantasticano in alto e in basso tra cieli anneriti, plumbei, rifiuti umani, vie deserte, agglomerati fumosi e vistosi segni di scorrerie di altri immaginari.
Un rituale che ripete se stesso senza novità da annoverare e segnalare; rotazioni e barriere, laterali e fuochi, alzate e scoppi, fulmini e saette a tutto schermo. I colori sbiaditi, aggrumati, spenti, nebbiosi e misti-oscuri cavalcano il duo Newt-Gellerth.
Eddie Redmayne (Newt Scamandro): gracile e furbo, cartoon e mesto (ammorbidito da piacere). Johnny Deep (Gellertb Grindelwald): irriverente e irriconoscibile, bulico e svuotato; forse un anno sabatico sarebbe meglio per ricaricarsi (o almeno si spera). Jude Law (Albus Silente): accettabile e sornione, viziato e generico. Katherine Waterstone (Porpentina Scamander): vista e rivista, posta e ricamata.
Silenzi coperti da uno score ideale, volti tediosi e finti, animali sbraitanti, valigia porta tutto e cerchi colorati in uno spettacolo abbordabile e alquanto allungato. Il primo e il secondo sono passati. Per i nuovi che arriveranno attendiamo (si fa per dire) lumi e maggiori idee di ‘grande cinema’.
Regia ritualmente addomesticata e congrua, volubile e ripetitiva.
Voto: 5/10 (**).

 
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Cannes 2019. La Palma e gli altri premi: è stata la strage dei grandi (e la vittoria dei nuovi)

Post n°15152 pubblicato il 01 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

da nuovocinemalocatelli.comPubblicato il  da Luigi Locatelli

Il coreano Bong Joon-ho: Palma d’oro al suo Parasite (immagine dal sito ufficiale del festival di Cannes)

E così anche stavolta Pedro Almodóvar è stato fottuto. Scusate l’espressione rude, ma non saprei come dire meglio quanto è successo stasera in sede di premiazione di Cannes 72. Neanche quest’anno, che pure ha portato in concorso il suo film più convincente da parecchio tempo in qua, ha vinto la Palma d’oro. Premiato sì come migliore attore Antonio Banderas, che interpreta il suo alter ego in Dolor y Gloria, ma è troppo poco e non vale come risarcimento (ed è di Banderas il migliore speech di ringraziamento di tutta la soirée, il più nobile, asciutto e elegante, in cui dice senza smancerosità e con massima sincerità di dovere tutto a Pedro e di voler dividere il premio con lui. Ed è partito un applauso che non finiva più).
Ma la sconfitta di Almodóvar è solo il caso più vistoso della strage dei grandi, dei non pochi titani del cinema che stavano in concorso, cui abbiamo assistito stasera. Un’esecuzione di massa perpetrata da una giuria in cui pure c’era gente di rispetto e talento, da Iñarritu a Lanthimos alla nostra Alice Rohrwacher. Dunque, compiliamo la triste lista delle vittime: niente, oltre che a Pedro, a Quentin Tarantino, Terrence Malick, Abdellatif Kéchiche, Ken Loach, Xavier Dolan, che ha solo trent’anni ma va incluso tra i consacrati (niente palma, però due premi incassati negli anni scorsi a Cannes Compétition e uno a Un certain regard). Gli unici mammasantissima a essersi salvati dal massacro son stati chissà perché, non potendo vantare almeno stavolta meriti particolari rispetto agli esclusi, i fratelli Dardenne, cui è andato il premio per la regia, per un film coraggioso ma con finale pessimo che rovina il buono visto fino a quel momento, su un ragazzino intossicato dal fanatismo islamico, Le jeune Ahmed (violentemente attaccato da molta stampa vecchia e giovane per presunta quanto a mio parere inesistente ‘islamofobia’).
Ma siamo sicuri, signori giurati, che Les Misérables (premio della giuria ex aequo con Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles, registi del brasiliano Bacurau), astutissimo e giovanottesco prodotto francese sulle cité e le banlieue che incasserà molto e avrà certo carriera internazionale, sia meglio per dire di Terrence Malick? Il quale ha portato qui il suo film più importante da The Tree of Life e che con una sola sequenza del suo The Hidden Life si mangia tutto il palmarès di stasera. O che il pur bello e interessante Atlantique della francese di origini senegalesi Mati Diop, da collocare tra le buone sorprese del concorso, meriti il Grand Prix che gli è stato assegnato, ovvero il secondo premio nel ranking cannense dopo la Palma d’oro? Era proprio il caso di spazzare via Kéchiche o Dolan per assegnare irragionevolmente alla bellissima, oltre che talentuosa, Mati Diop un riconoscimento tanto importante e pesante?
Il messaggio è arrivato chiaro e forte. Gli illustri maestri che molto hanno dato e molto hanno vinto si ritirino, si pensionino, si chiudano nelle case-riposo, nelle Case Verdi dei cineasti. E la prossima volta tutt’al più si presentino fuori concorso. Invece, promana dalle decisioni dei giurati un volgarissimo e tonante largo ai giovani, un si proceda con la rottamazione dei soliti noti. E, ovviamente, viva la diversity!, che sennò i giornalisti americani poi scrivono cosacce del festivàl. Sicché spazio nel palmarès, oltre che ai giovani, alle donne (tre delle quattro autrici in concorso sono state in vario modo premiate), alle cinematografie emergenti extraueropee come Brasile (Bacurau) e Sud Corea (la Palma d’oro Parasite di Bong Joon-Ho). Che par di sentirli, i giurati, discutere e dirsi che no, basta con le facce di sempre, è ora di valorizzare il nuovo sant’Iddio, di pensare al cinema di domani mica a quello di ieri! Intendiamoci, nessuno dei premi assegnati è scandaloso, nessuno è assurdo, tutti gli autori che son saliti stasera sul palco del Grande Theâtre Lumière hanno portato nella Compétition cose decorose o buone assai, eppure scorrendo il palmarès l’impressione è di una certa angustia, di una diffusa medietà e mediocrità: zero capolavori e pochi i nomi in grado di farci credere-sperare davvero nel futuro del cinema.
Con 21 titoli in concorso, tanti, e quasi nessuno davvero brutto (a parte Jarmusch), ammetto che fosse complicato per Iñarritu e compagni combinare il palmarès. Si doveva scegliere e si è scelto drasticamente e non sempre felicemente, anzi più no che sì. Per dare spazio a più autori e opere si è inventata una menzione speciale (andata a Elia Suleiman per It Must Be Heaven: ovazioni e applausi perfino in corso di proiezione ieri al Lumière; qualcuno pronosticava addirittura la Palma, ma a me, che non ho gradito granché il film, sta bene così, una menzione e via) e si è assegnato un ex aequo per la migliore regia (vedi sopra). Mi è parsa scocciata e delusa Céline Sciamma, data per favoritissima alla vigilia insieme a Almodóvar e Bong Joon-Ho, e invece semiliquidata con un premio minore, quello per la sceneggiatura, a lei e al al suo – a parer mio –  sopravvalutatissimo Portrait de la jeune fille en feu. Sono lieto invece – e però quanti fischi in Salle Debussy dove si trasmetteva su grande schermo la cérimonie de clôture – per il premio per la migliore interpretazione femminile andato nello sconcerto dei più alla Emily Beecham del sofisticato distopico Little Joe di Jessica Hausner, passato nell’indifferenza se non nell’ostilità generale e invece assai sottile e allarmante nel ritrarre glacialmente certe derive del post-umano. Resta da ri-dire della Palma, il coreano Parasite, non proprio inattesa. Successo travolgente, come scrivevano un tempo i critici pigri, ‘di critica e di pubblico’ a tutte le proiezioni. Conferma dell’enorme talento del suo regista, Parasite è forte di una sfolgorante messa in scena e di una sceneggiatura di ingegneristica precisione: almeno fino a due terzi di narrazione, quando tutto precipita nel caos. Certo c’è dentro tutta la vitalità selvaggia e l’energia smodata, anche maleducata, del cinema coreano, non da oggi tra i maggiori al mondo, capace di generare autorialità e film di genere in pari misura. O opere che si situano all’esatto punto di mezzo tra i due estremi com’è il Parassitavincitore. Che ho apprezzato, come no, ma che non colloco tra i miei film del cuore di questo festival. Avrà un enorme successo dappertutto, e però io, sorry, non sono riuscito ad amarlo trovandolo qua e là a essere franchi parecchio indigesto e rozzo. Dimenticavo: niente al Traditore di Marco Bellocchio, com’era prevedibile, solo Favino avrebbe potuto ragionevolmente insediarsi nel palmarès alla voce ‘migliore attore’, ma non ce l’ha fatta. Rammarico personale: che sia rimasto fuori da questo palmarès dei nuovi e seminuovi il cinese Il lago delle oche selvatiche. Quanto agli speech di ringraziamento: hanno annoiato e imbarazzato per prolissità e inconcludenza Ladj LY (Les Misérables) con la sua corte chiamata maleducatamente sul palco e Mati Diop (Atlantique), tant’è che il cerimoniere Edouard Baer ha dovuto interrompere uno e l’altra a forza. Ragazzi, non si parla e straparla sul palco di Cannes come se si fosse nel tinello di casa. Occorre senso della misura e del tempo: anche questo vuol dire essere autori veri. Ecco la lista degli insigniti.

PALMA D’ORO
Parasite (Gisaengcgung) di Bong Joon-Ho

Grand Prix
Atlantique di Mati Diop

Premio per la regia
Le Jeune Ahmed di Jean-Pierre & Luc Dardenne

Premio della giuria ex-aequo
Les Misérables di Ladj LY
Bacurau di Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles

Premio per l’interpretazione femminile
Emily Beecham per Little Joe di Jessica Hausner

Premio per l’interpretazione maschile
Antonio Banderas per Dolor y Gloria di Pedro Almodovar

Premio per la sceneggiatura
Céline Sciamma per Portrait de la jeune fille en feu

Menzione speciale
Elia Suleiman per It Must Be Heaven

Caméra d’or (il premio opera prima)
Nuestras Madres di César Diaz, presentato alla Semaine de la Critique

 
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Obiettivo: Salvare Pandora TV prima che la chiudano loro

Post n°15151 pubblicato il 01 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

 
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"Guerra contro il giornalismo": Snowden ripudia le accuse presentate dagli Stati Uniti contro Assange

Post n°15150 pubblicato il 01 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

da antidiplomatico
Guerra contro il giornalismo: Snowden ripudia le accuse presentate dagli Stati Uniti contro Assange
 
L'ex contractor della NSA ritiene che la misura presa da Washington "deciderà il futuro dei media".

Il destino del giornalismo, come lo conosciamo ora, è in gioco dopo che Washington ha accusato Julian Assange di spionaggio, ha scritto il noto ex-contractor e informatore della NSA Edward Snowden, in risposta alla notizia sulle 17 nuove accuse presentate dagli USA contro il fondatore di WikiLeaks.
 
"Il Dipartimento di Giustizia ha appena dichiarato guerra non a Wikileaks, ma sal giornalismo stesso, non si tratta più di Julian Assange: questo caso deciderà il futuro dei media", ha scritto Snowden sul suo account Twitter, ieri.
 

 
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Huawei annuncia il lancio di un proprio sistema operativo entro l'anno ds agi

Post n°15149 pubblicato il 01 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

Scelta obbligata dopo il bando ufficializzato da Google. Il nuovo sistema operativo sarà compatibile con Android

huawei nuovo sistema operativo

Il gigante delle telecomunicazioni cinese Huawei è pronto con il piano B, e potrebbe avere il nuovo sistema operativo sviluppato internamente già a partire dall'autunno di quest'anno. Lo ha dichiarato uno degli alti dirigenti del gruppo di Shenzhen, Richard Yu, a capo delle divisione Consumer business di Huawei, citato sia dal quotidiano China Daily, primo a rilanciare la notizia, che dalla rete telvisiva Cnbc.

"Il sistema operativo di Huawei sarà compatibile con Android e tutte le applicazioni web", ha detto Yu in una chat con altri altri esperti di Internet sulla piattaforma WeChat, citata dal giornale cinese e potrebbe essere pronto "al più presto nell'autunno 2019 o, al più tardi, la prossima primavera", e sarà supportato da tutti i dispositivi del gruppo, dagli smartphone, ai tablet, alle smart tv, fino ai dispostivi indossabili e alle vetture.

"Oggi, a Huawei, siamo ancora legati a Microsoft Windows e a Google Android", ha detto Yu a Cnbc, "ma se non possiamo usarli, Huawei preparerà il piano B per usare il proprio sistema operativo". Sul nuovo sistema operativo sarà disponibile la App Gallery, ovvero l'App Store di Huawei, alla quale viene, però, spesso preferito dagli utenti il Play Store di Google per scaricare le app preferite.

Il Google Play Store, però, non sarà più disponibile nel caso in cui il gruppo fosse bloccato permanentemente dall'utilizzo di prodotti Google o Microsoft, al termine del rinvio di 90 giorni al bando di vendita di componentistica al gruppo di Shenzhen concesso dall'amministrazione Usa, che permetterà fino al 19 agosto prossimo a Huawei di mantenere i network attuali e di fornire aggiornamenti software ai dispostivi esistenti.

"Non volevamo, ma siamo stati costretti dal governo degli Stati Uniti", ha commentato Yu. "Penso che questa non sia una cattiva notizia solo per noi, ma anche per i gruppi statunitensi, perché abbiamo sostenuto il business Usa, e saremo costretti a fare da noi. Non volevamo", ha ripetuto Yu, "ma non avevamo altra soluzione, non avevamo altra scelta".

 
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Ian McKellen, un Cavaliere della recitazione da camerlook

Post n°15148 pubblicato il 01 Giugno 2019 da Ladridicinema
 
Tag: news, STORIA

Sabato 25 maggio è l’80° compleanno di un interprete che in mezzo secolo di carriera, tra cinema, teatro e tv ha ottenuto più di cinquanta premi: Ian McKellen. Un attore simbolo, apprezzato in tutto il mondo grazie al ruolo di Magneto nei film degli X-Men e al ruolo di Gandalf nelle trilogie de Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit.
Ian McKellen e il Teatro

Nato e cresciuto nel nord dell’Inghilterra, Ian McKellen ha frequentato la Cambridge University, e dal 1961 non ha mai smesso di lavorare nel teatro britannico. È stato protagonista di numerose opere e ha prodotto svariati spettacoli, sia moderni e classici, per la Royal Shakespeare Company e il National Theatre of Great Britain, e nel West End di Londra. Ha vinto quattro Olivier Awards perMacbeth (1976-78), The Alchemist (1977), Bent (1979), Wild Honey (1984) e Riccardo III(1991), e due Evening Standard Awards per Coriolano (1984) e Otello (1989).

Nel 1981 ha vinto praticamente ogni premio esistente, compreso un Tony come Miglior Attore, grazie al ruolo di Salieri nell’allestimento di Amadeus di Peter Shaffer rappresentato a Broadway. Nel 2013–2014, ha recitato in No Man’s Land Aspettando Godot a Broadway dopo aver battuto tutti i record d’incasso a Londra, nel resto del Regno Unito e in varie tournée mondiali. Per oltre un decennio, è stato in tournée con il suo spettacolo solista Ian McKellen: Acting Shakespeare, che l’ha portato attraverso quattro continenti e viene mostrato ogni giorno in svariate scuole e università. Ha stupito i suoi fan interpretando il ruolo della vedova Twankey nella pantomima natalizia al teatro Old Vic di Londra (2004 e 2005). Recentemente ha recitato accanto a Sir Patrick Stewart nel revival di No Man’s Land, nel West End di Londra.

Al cinema

La variegata filmografia di Ian McKellen comprende film di spicco come La Fortezza (1983), Plenty (1985), Scandal – Il Caso Profumo (1989), Sei Gradi di Separazione (1993), Restoration – Il Peccato e il Castigo (1995), Bent (1997), Cold Comfort Farm (1995) e Il Codice Da Vinci (2006). Più recentemente, McKellen ha interpretato il ruolo del protagonista in Mr. Holmes – Il Mistero del Caso Irrisolto, ottenendo il plauso della critica internazionale. Ha lavorato per la prima volta con il regista Bill Condon interpretando James Whale nel film del 1998 inDemoni e Dei, ottenendo la sua prima candidatura all’Oscar come Miglior Attore. Nello stesso anno, le più importanti associazioni di critici l’hanno premiato come Miglior Attore grazie all’interpretazione del nazista sotto mentite spoglie in L’Allievo di Bryan Singer. Nel 1996, grazie all’interpretazione shakespeariana offerta in Riccardo III di Richard Loncraine, che McKellen ha anche prodotto e co-sceneggiato, è stato decretato Attore Europeo dell’Anno.

In televisione

Sul piccolo schermo, Ian McKellen recita attualmente nella seconda stagione della sitcom di grande successo Vicious, prodotta da ITV/PBS, e ha recitato con Anthony Hopkins in The Dresser per BBC/STARZ. Grazie ai suoi molteplici lavori televisivi, McKellen è stato candidato per cinque volte all’Emmy, più recentemente grazie al suo impareggiabile Re Lear (2008) e al suo ruolo comico come ospite in Extras (2006), in cui pronunciava la memorabile frase: “Come faccio a recitare così bene?”. Va particolarmente fiero dei suoi ruoli in Walter (che gli è valso un Royal Television Award nel 1982) in cui interpretava un uomo mentalmente handicappato, e in And the Band Played On (che gli è valso un Cable Ace Award nel 1993), una storia incentrata sulle origini dell’AIDS, e ha partecipato come ospite alla soap opera più longeva del Regno Unito, Coronation Street (2005).

Sir Ian

Nel 1991, Sir Ian è stato nominato cavaliere per i servigi resi al teatro britannico. È uno dei fondatori di Stonewall UK, che difende l’uguaglianza sociale e legale per le persone omosessuali. Nel 2007, la Regina l’ha personalmente nominato Companion of Honour per i servigi resi al teatro e all’uguaglianza. Insomma: un grandissimo.

 
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Lo attesta l'Onu. Contro Assange applicate chiare forme di "tortura psicologica"

Post n°15147 pubblicato il 01 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

da antidiplomatico

Il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla Tortura ha dichiarato sulla detenzione di Julian #Assange: "In 20 anni di lavoro con le vittime della guerra e della persecuzione politica non ho mai visto uno stato democratico che si intromettesse per isolare deliberatamente, demonizzare e abusare di un singolo individuo con così poco riguardo per la legge." Lo riporta anche il noto giornalista australiano John Pilger sul suo account twitter.




Il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, imprigionato a Londra dal mese scorso, soffre di sintomi di tortura psicologica, quindi non dovrebbe essere estradato negli Stati Uniti. Lo ha dichiarato venerdì il relatore speciale delle Nazioni Unite sulle Torture, Nils Melzer. L'esperto, che ha visitato il giornalista australiano in carcere, ha dichiarato che "Assange è stato deliberatamente esposto, per diversi anni, a forme severe di trattamento o punizione crudeli, inumani o degradanti i cui effetti cumulativi possono essere descritti solo come torture psicologiche". 

Lo specialista in un rapporto ha indicato che sulla parte fisica è in corso di revisione da parte del servizio sanitario carcerario. Per quel che riguarda l'aspetto psicologico, l'esperto ha osservato che Assange soffre di un'ansia costante. "Era evidente che avesse la sensazione di essere sotto la minaccia di tutti. Ha capito quale fosse il mio ruolo, ma era estremamente agitato e occupato dai propri pensieri. È stato difficile avere una conversazione molto strutturata con lui ", ha detto in una dichiarazione.

 Assange doveva comparire davanti ai giudici ieri, in udienza giudiziaria, tuttavia, gli avvocati hanno sostenuto che il fondatore di WikiLeaks era troppo malato per apparire in collegamento video.  Si prevede che Melzer presenterà un appello al governo del Regno Unito questo venerdì.
 Assange è stato detenuto dalla giustizia britannica dallo scorso aprile, quando il governo dell'Ecuador ha ritirato il manicomio che gli aveva concesso sette anni in passato. Assange è il fondatore dell'organizzazione WikiLeaks, attraverso la quale è riuscito a divulgare fino a 700.000 documenti classificati del Pentagono, gli Stati Uniti (USA), sulla guerra in Iraq e in Afghanistan.

 

 
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