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Messaggi del 28/06/2019

 

Pericle il nero

Post n°15211 pubblicato il 28 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

La vita di Pericle Scalzone è nera come il 'titolo' che si è guadagnato sul campo. Assoldato da Don Luigi per fare letteralmente il culo alla gente, Pericle arrotonda l'attività criminale girando film pornografici. Perché Pericle 'maneggia' bene certi argomenti davanti alla macchina da presa come alle spalle dei malcapitati che umilia barbaramente. Durante una spedizione punitiva uccide per sbaglio la sorella di un temibile boss camorrista e ripiega in un rifugio segreto dove viene presto raggiunto da due uomini armati. Tradito da Don Luigi, l'unico a sapere dove si fosse nascosto, Pericle infila l'autostrada e abbandona Bruxelles. Lontano, solo e disperato a Calais incontra Anastasia, impiegata in una boulangerie e madre di due bambini. Per Pericle è subito amore e forse l'inizio di una nuova vita.
È nero il Pericle di Riccardo Scamarcio e contrariamente al suo omonimo ateniese non esercita la democrazia ma l'oppressione, mortificando in nome di un principio barbaro e di un boss che gestisce le pizzerie di Bruxelles. Nondimeno con l'uomo politico celebrato da Tucidide, Pericle Scalzone condivide la capacità di legittimarsi dentro un mondo che gli ha rubato l'infanzia, lo ha iniziato alla sodomia e lo ha sottomesso costringendolo a sottomettere. 
Noir fluido e insieme romanzo di emancipazione, Pericle il nero converte la discesa, motivo ricorrente del noir, in movimento ascensionale (la ricerca di aria, di luce, di sentimento) ed elude lo scacco esistenziale del criminale, accordandogli la fuga. Motore del film un uomo che si ritrova improvvisamente intrappolato, una figura non strutturata all'interno della società, nemmeno quella criminale, che precipita in un incubo a cui scampa prendendo in contropiede le irruzioni dei sicari e del caso. 
Alla maniera di Provincia meccanica, Stefano Mordini svolge l'impasse di un personaggio sgradevole spingendolo a seguire fino in fondo i suoi sogni e le sue ossessioni. Occhi grandi affondati nel buio e affamati di affetto, Pericle è solo sulla faccia della terra e si muove lungo la frattura che si genera spesso fra ciò che siamo, o ciò che sentiamo di essere, e ciò che gli altri vedono in noi. Per Don Luigi e sua figlia Anna, che Pericle ama in segreto e dentro lunghi monologhi interiori, lui non esiste e quando esiste è per adempiere la loro volontà. 
Mordini salta via veloce sugli snodi che risultano troppo ovvi e si concentra sul suo attore, sul suo corpo in fuga, sul suo sguardo vuoto e bisognoso d'amore. A dare autenticità e credibilità al Pericle del titolo provvede Riccardo Scamarcio, spiazzando lo spettatore, operando degli strappi e inserendo delle variabili che evadono la norma e trovano l'essenzialità e il cinetismo emotivo. Trasposizione del noir secco di Giuseppe Ferrandino, traslocato da Napoli a Bruxelles, Pericle il nero aggiunge una fisicità distorta al clima di angoscia che il genere costruisce innanzitutto sul piano psicologico. 
L'interiorizzazione del racconto noir si nutre di questa dissonanza fisica come segno di una distorsione mentale che investe l'intero rapporto col mondo. A sublimare la brutalità del protagonista, alla ricerca della propria identità sulla battigia battuta come lui dai marosi, e a ridurre la deformazione della sua relazione con la realtà, interviene il personaggio di Marina Foïs. È (anche) lei a incarnare la solitudine noir, premessa a un'immagine femminile indipendente, capace di prendere audacemente in mano la situazione, di sfondare imprenditorialmente (aprendo magari una panetteria) e di traghettare oltre il proprio uomo. E a Calais, luogo di sospensione e di passaggio col suo porto e i suoi traghetti per Dover e per l'altrove, Mordini incontra un uomo e una donna a cui concede, in un finale che non chiude evitando la tragedia quanto l'happy end consolatorio, una possibilità ulteriore. Una seconda chance che incrocia gli occhi larghi di Pericle che per un attimo sorridono, sciogliendo l'inquietudine accumulata e aprendo alla speranza. In attesa da qualche parte, al di là del mare.

 
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Il traduttore

Post n°15210 pubblicato il 28 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

Andrei è un giovane rumeno venuto in Italia per una specializzazione universitaria grazie a una borsa di studio. Oltre all'università cerca di mantenersi con altri lavori e mandare i soldi alla sua ragazza rimasta in Romania, di sera lavora infatti in una pizzeria e spesso viene chiamato come interprete per delle intercettazioni in questura. Schivo e riservato, Andrei conosce la vedova Anna, una ricca gallerista che lo incarica di tradurre il diario del marito. Tra i due nascerà una focosa relazione. 
Il traduttore è un film che sembra intraprendere diverse direzioni, il melodramma erotico, il noir, mettendo anche in ballo alcune questioni sociali, quello che però ne viene fuori è un lavoro confuso che non scava in nessuno dei generi e delle questioni qui citate. Il personaggio di Andrei (Kamil Kula) combatte una personale battaglia che sembra non avere delle motivazioni ben salde, si vorrebbe affrontare il problema dell'integrazione e della differenza culturale con un inspiegabile finale imposto da una sceneggiatura a dir poco traballante. Tutto è eccessivo, dalle ripetute scene di sesso ansimante messe lì solo per dare quel tono piccante al dramma, all'atteggiamento forzatamente tenebroso di Andrei, fino al momento in cui la Gerini, grazie a un'incomprensibile epifania scopre la verità su suo marito. 
Il secondo film di Massimo Natale si perde in situazioni buttate lì casualmente cercando più aperture e livelli di lettura, ma ottenendo soltanto un gran pasticcio che inizialmente sembra avere una certa ambizione. Tante piccole finestre si aprono senza mai portare a conclusione il discorso e senza creare un'uniformità del lavoro. Anche nel personaggio del capo della polizia (Anna Safroncik) si percepisce una forzatura nel voler creare una donna decisa e caparbia nell'ottenere risultati dal suo lavoro per un riscatto e una rinascita personale, ma lo si fa attraverso imbarazzanti frasi stereotipate, tipiche del doppiaggio poliziottesco. 
Il problema principale di questo film sta infatti proprio nella sceneggiatura che sembra essere ideata secondo modellini predefiniti. La scena del corteggiamento/danza all'interno della galleria rappresenta poi l'apice dell'intollerabile pathos che puntualmente viene esasperato, grazie anche allo scontato uso delle musiche.

 
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Lazzaro felice

Post n°15209 pubblicato il 28 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

La Marchesa Alfonsina de Luna possiede una piantagione di tabacco e 54 schiavi che la coltivano senza ricevere altro in cambio che la possibilità di sopravvivere sui suoi terreni in catapecchie fatiscenti, senza nemmeno le lampadine perchè a loro deve bastare la luce della luna. In mezzo a quella piccola comunità contadina si muove Lazzaro, un ragazzo che non sa neppure di chi è figlio ma che è comunque grato di stare al mondo, e svolge i suoi inesauribili compiti con la generosità di chi è nato profondamente buono. Ma qual è il posto, e il ruolo, della bontà fra gli uomini?

Come saprà risorgere questo Lazzaro per continuare a testimoniare che il bene esiste, e attraversa le vicende umane senza perdere la propria valenza rivoluzionaria?

Alla sua terza regia Alice Rohrwacher fa intraprendere al suo protagonista, e alla comunità che lo circonda, un cammino che è anche il proprio, all'interno di un cinema che deve molto a Olmi e Zavattini ma continua a spingersi oltre lungo un terreno che frana e si modifica continuamente sotto i suoi (e i nostri) piedi. Non è facile tenerle dietro mentre attraversa un'arcadia senza tempo che è anche un microcosmo di sfruttamento, dove il lupo è assai più giusto e buono dell'essere umano che lo teme. Il suo linguaggio parte da atavico e diventa postmoderno, racconta un vento che soffia senza tregua per spazzare via la protervia del potere e uno sputo nel piatto dell'ingiustizia sociale senza per questo negare che il Bene e il Male percorrono il tempo senza cambiarlo, riproponendosi all'infinito.

La fionda che Tancredi, il figlio della Marchesa, regala a Lazzaro è come la cinepresa per Rohrwacher, ben consapevole della sua pericolosità: Alice si piazza sempre in medias res, fra le foglie di tabacco, dentro ai letti disfatti dei contadini, dietro lo sguardo puro del suo protagonista. Lazzaro è un'occasione come lo è il cinema di Alice Rohrwacher, che è tutto finto, nel senso di reinventato e ricreato, ma conserva radici profondamente reali, italiane prima che universali, rurali piuttosto che bucoliche.

 
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Ricchi di fantasia

Post n°15208 pubblicato il 28 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

Sergio è un geometra che ora fa il carpentiere. Sabrina è una ex cantante che ora lavora nel ristorante del suo compagno. I due sono amanti ma, a causa dei rispettivi problemi di carattere economico, non possono andare a vivere insieme lasciandosi alle spalle le famiglie. Tutto però sembra poter cambiare quando un collega di Sergio decide di vendicarsi degli scherzi di cui è spesso vittima facendogli credere di aver vinto tre milioni di euro alla lotteria. Ora Sergio, che si crede ricco, prende coraggio e convince Sabrina a fuggire con lui. Entrambi si portano dietro una parte della parentela. La verità però non tarderà ad emergere e i due dovranno elaborare delle strategie per cercare di non deludere chi hanno coinvolto nella loro storia.

Sergio Castellitto e Sabrina Ferilli recitano insieme per la prima volta e sembra che siano, come si diceva una volta, una compagnia di giro, cioè una coppia ormai più che affiatata grazie a un lungo periodo di collaborazione.

Francesco Micciché ha creato una nuova coppia del cinema italiano che, è da sperarlo, troverà nuove occasioni per mostrare la propria affinità. Va detto che anche il contesto in cui i due sono inseriti, cioè gli attori che interpretano i parenti, offrono la sensazione di un affiatamento non così consueto nel cinema italiano. Quanto sopra offre un contributo di pregio a una sceneggiatura, scritta da Micciché con Fabio Bonifacci, che non si limita ad essere un omaggio alla classica 'commedia all'italiana' (ne abbiamo visti tanti non proprio riusciti) ma va oltre proponendo una lettura critica del presente tenendosi alla larga da sterili tentativi di imitazione. 

C'è tutta la rabbia della frustrazione di questi nostri giorni nelle dinamiche che tengono insieme i due nuclei familiari anche quando Sergio e Sabrina si saranno liberati dei reciproci partner. La nonna con un'anca che fa male a comando, la figlia esperta in serie tv piuttosto che l'adolescente aspirante calciatore sono tutti privi di progetti che prevedano una crescita consapevole da affrontare passo dopo passo.

 
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Gli incredibili 2

Post n°15207 pubblicato il 28 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

Mr Incredibile, Elastigirl e Siberius ci hanno provato a farsi riamare dalla gente, a dimostrare la propria utilità alle istituzioni, ma non c'è stato niente da fare: fuorilegge erano e fuorilegge rimangono. Non la pensa così, però, il magnate Winston Deavor, da sempre grandissimo fan dei Super, che intende perorare la loro causa e ha scelto Elastigirl come frontwoman per l'impresa. Convinto che il problema sia di percezione, grazie alle invenzioni della sorella Evelyn vuole dotare Helen di una telecamera per mostrare alla gente il suo punto di vista.

Elastigirl sale alla ribalta mentre Mr Incredibile siede in panchina, in attesa di tornare in azione, alle prese con le paturnie adolescenziali di Violetta, la matematica di Flash e i sorprendenti superpoteri del piccolo Jack Jack.

Il più strabiliante superpotere di Gli Incredibili 2 è quello di tenere incollati, far sorridere e far sghignazzare, intenerire e soddisfare, nonostante il primo film avesse già fatto tutto questo quattordici anni fa e lo avesse fatto meglio. La miscela è fatta di grandi réprise e di piccole novità, cui si aggiunge un citazionismo evidente ma non invadente, spesso interno al mondo Pixar. 

L'azione riprende dove si era interrotta: i Super hanno avuto la loro occasione ma la sprecano, lasciando scappare Il Minatore (che fugge letteralmente fuori dal film, perché non se ne ha più traccia), lo spauracchio è ancora una volta quello di una vita normale, con un lavoro normale, ma un altro fan solletica la loro voglia di avventura e il loro desiderio di legittimazione. Un riccone che offre loro una villa à la Toni Stark (registicamente perfetta per le esplosioni di Jack Jack e le sue scorribande notturne oltre la grande vetrata), il cui padre (che assomiglia a Steven Spielberg) ha perso la vita senza mai smettere di "credere" nei supereroi e nella loro bontà. Ci sono cose a cui noi, invece, non crediamo fin dal primo momento, e questo è problema, ma l'originalità non è e non può più essere la priorità del film. C'è anche un nodo, il terrorismo ideologico di chi si oppone all'ipnosi collettiva e alla dittatura dei media, che resta solo abbozzato, ma altrove invece ci sono, a bilanciare il tutto, più sfumature relazionali, più ritmo, qualche ottima battuta e una lotta a quattro zampe in giardino che è spettacolo nello spettacolo.

 
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In darkness

Post n°15206 pubblicato il 28 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

Leopold Socha, ispettore fognario nella Leopoli occupata del ’43, ha una moglie e una bambina a cui garantire un piatto caldo e un futuro. Scaltro e intraprendente, ruba nelle case dei ricchi e non ha scrupoli con quelle degli ebrei, costretti nel ghetto e poi falciati dalla follia omicida dei nazisti. Avvicinato da un vecchio compagno di cella, l’ufficiale ucraino Bortnik, gli viene promessa una lauta ricompensa se troverà e denuncerà alla Gestapo gli ebrei sfuggiti ai rastrellamenti. Nascosti undici di loro in un settore angusto delle fognature, in cambio di cibo e silenzio, Leopold ricava profitto e benessere. Un benessere vile come la sua condotta. Ma il tempo della guerra e della sopraffazione, ammorbidisce il suo cuore e lo mette al servizio del prossimo. Tra aguzzini famelici, perlustrazioni, fame, buio, bombardamenti e alluvioni, Leopold riuscirà a salvare uomini, donne e bambine conducendoli fuori dalle tenebre verso la luce.
Con In Darkness il cinema torna a occuparsi della Shoah e della drammatica esperienza dei sopravvissuti, testimoni che si sono misurati con il male assoluto e la cui memoria riempie un vuoto privato e collettivo. Ma più diffusamente, il film di Agnieszka Holland indaga il comportamento umano in situazioni limite, affrontando la più grande tragedia del Novecento e richiamando insieme quelle successive, che si sono consumate nell’oblio e nelle derive della noncuranza. Sprofondando letteralmente personaggi e spettatori nelle tenebre, la regista polacca produce un cinema che mentre rievoca la Storia si pone in lotta contro il torpore del presente. In un buio lungo centoquaranta minuti Leopold Socha è la luce che rischiara, il protagonista di una vicenda eccezionale (e reale) connessa alle scelte di chi si sente parte della Storia avvertendo la necessità di rigettarne gli orrori. Privilegiando la prospettiva sull’individuo, la Holland realizza un racconto esistenziale e una battaglia tenace contro la cecità, descrivendo le tappe e i passaggi di una presa di coscienza individuale dentro un tempo segnato da sentimenti di insicurezza e da uno stato di pericolo permanente. In Darkness, trasposizione del romanzo “Nelle fogne di Lvov” di Robert Marshall, è dedicato a Marek Edelman, vice comandante della rivolta del ghetto di Varsavia e leader del Bund, il movimento operaio ebraico che lottava per l’autonomia culturale. Oscurato e incarnato, il film osserva l’umanità brancolare in un nero profondo dove le energie migliori sono destinate a lottare contro la fame e la miseria. Quella materiale e quella spirituale. 
Ambientato quasi interamente in una città sotterranea, In Darkness trova il suo contrappunto nello spazio urbano emergente e in cui emerge Leopold, traghettatore e corriere sospeso tra il mondo di sotto e quello di sopra, dove giorno dopo giorno la macchina di distruzione perfeziona la sua intenzione. Le fognature di Leopoli esemplificano i percorsi di una ricerca di liberazione, i vicoli ciechi dell’autodistruzione, i bivi della perdizione, un labirinto in cui non è facile fiutare tracce di salvezza. L’underground narrato dalla Holland assume un valore universale e la dimensione di una parabola, per nulla buonista, in cui un uomo si consegna alla propria rinascita affrontando il rischio della morte. L’autrice restituisce con sensibilità e nessun sentimentalismo l’ambivalenza della doppia logica alla quale l’occupazione nazista ha condannato il protagonista, appeso tra una tormentata ribellione e una speranza di redenzione, indeciso se diventare custode di vita o pedina decisiva della mostruosità del potere. Ma Leopold Socha non si sottrae, diventando simbolo di una possibilità, invertendo la direzione degli eventi, facendosi ‘giusto’ tra i giusti. Agnieszka Holland col suo film compie un atto memoriale che non dimentica che la Storia è in primo luogo quello che gli uomini hanno fatto

 
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La Mia Vita con John F. Donovan

Post n°15205 pubblicato il 28 Giugno 2019 da Ladridicinema
 

Titolo originale: The Death and Life of John F. Donovan

La Mia Vita con John F. Donovan è un film di genere drammatico del 2018, diretto da Xavier Dolan, con Kit Harington e Natalie Portman. Uscita al cinema il 27 giugno 2019. Durata 123 minuti. Distribuito da Lucky Red.

Poster

 

La Mia Vita con John F. Donovan, il film di Xavier Dolan, vede riportati sul grande schermo tutti i temi che hanno reso famoso nel mondo il giovane regista canadese: la relazione madre/figlio, l'omosessualità, l'infanzia.
Definito dallo stesso regista "un film satirico ma drammatico", il film vede protagonista la star della Tv americana John F. Donovan (Kit Harington).
In un momento di crisi l'attore intraprende un scambio epistolare con un giovanissimo fan inglese, l'aspirante attore di undici anni Rupert Turner (Jacob Teremblay), aprendogli le porte del cuore, svelando i turbamenti di un segreto celato agli occhi di tutti.
Il ragazzino, che non perde nemmeno una delle apparizioni del suo idolo in tv, e tappezza le pareti della sua camera con tantissimi poster che lo ritraggono, porta avanti la corrispondenza all'insaputa di tutti, persino di sua madre Sam (Natalie Portman).
Dieci anni dopo, in una lunga intervista accorata, Turner (Ben Schnetzer) diventato attore ripercorre gli avvenimenti che portarono alla morte, del suo amico e mentore. Ne ripercorre così la vita e la carriera, dall'ascesa al declino, causato da uno scandalo tutto da dimostrare.
Nel cast d'eccezione del film troviamo anche Kathy Bates e Susan Sarandon.


 

Nato nel 1989, a 19 anni già la partecipazione a Cannes, con il suo primo film, J'ai tué ma mère, sezione Quinzaine des realisateurs, con un sacco di premi e lo status così presto acquisito di regista fenomeno, culto di una nuova generazione di millennials. Il titolo del film contiene lo spirito di ribellione dell'adolescente, e la sua ossessione per il rapporto fra madri complicate e figli che lo sono ancora di più, spesso interpretati da lui stesso, come nell'opera prima.

Perché Xavier Dolan non è solo regista o sceneggiatore, ma anche attore, montatore, produttore, costumista, scenografo e doppiatore nel francese così caratteristico del Québec. Non di personaggi di poco conto, se pensate che ha dato la voce a Stan nella serie South Park, a Rupert Grint nei vari film dedicati a Harry Potter e Taylor Lautner nella saga di Twilight.
Xavier è nato a Montréal, in Québec, dall'attore e cantante Manuel Tadros, a sua volta nato al Cairo da una famiglia copta, e dall'insegnante franco-canadese Geneviève Dolan, da cui prende il cognome d'arte. La sua carriera nel mondo dello spettacolo è iniziata da bambino, con molti spot pubblicitari e apparizioni televisive.

La prima occasione di farsi notare arrivò come attore, un anno prima del passaggio alla regia, nell'horror Martyrs di Pascal Laugier. Poi, dopo l'esordio con J'ai tué ma mére, ecco il secondo film l'anno dopo, Les Amours imaginaires, presentato nella sezione Un Certain Regard di Cannes.
Stessa destinazione, dodici mesi dopo, per Laurence Anyways e il desiderio di una donna, suo primo film a uscire in sala anche in Italia. Sono opere che consolidano il suo nome come uno dei più importanti talenti da tenere d’occhio del nuovo cinema. Suzanne Clément, una delle sue muse, vinse il premio come miglior attrice.
Il quarto film, Tom à la ferme, è il primo a esordire lontano dalla Croisette, al Lido di Venezia per la Mostra del Cinema 2013, dove ottenne una buona accoglienza, vincendo il premio Fipresci.
Ma è il successivo, Mommy, il film della consacrazione, con la presentazione per la prima volta in concorso a Cannes e il premio della giuria. Il ribelle è accolto nei saloni nobili, l’anno dopo parteciperà anche alla giuria. Il primo passo falso arriva con l’accoglienza contrastata, con qualche fischio, a Cannes, per È solo la fine del mondo, in cui per la prima volta si affida a grandi nomi come i francesi Vincent Cassel, Marion Cotillard, Gaspard Ulliel, Léa Seydoux e Nathalie Baye. Nonostante questo vince il secondo premio a Cannes, il Grand Prix. Sono momenti complicati per il giovane fenomeno ormai diventato adulto, che mal sopporta le critiche e dice di volersi prendere una pausa, per studiare e laurearsi. Momento chiave è stata l'estate del 2018, con voci che parlavano di problemi nel montaggio della sua prima opera in inglese, La mia vita con John F. Donovan, in cui è stata del tutto tagliata Jessica Chastain, originariamente una delle interpreti principali. Protagonisti sono Jacob Tremblay, Natalie Portman, Kit Harington, Thandie Newton e Susan Sarandon.
Presentato a Toronto con critiche feroci e pronte a fargli pagare il successo dei precedenti film, è rimasto congelato per mesi, mentre veniva presentato a Cannes il suo film successivo, Matthias & Maxime.

 

Il Film segna il debutto hollywoodiano del regista canadese Xavier Dolan.

FRASI CELEBRI:

 

Dal Trailer Italiano del Film:

Voce off: Avevo undici anni, a scuola mi prendevano in giro perché ero quello nuovo. Mi sentivo perso, io e mia madre quasi non ci parlavamo! Tutti abbiamo un idolo da bambini, il mio era John F. Donovan. Lui, al contrario, aveva ogni cosa: fama, amore...

Rupert Turner (Jacob Tremblay): Ho scritto una lettera a John Donovan cinque anni fa, era assurdo pensare che mi rispondesse, ma lo ha fatto! Ora ho solo undici anni, ma poi sarò come lui e faremo dei film insieme!

John F. Donovan (Kit Harington) Sento di aver sbagliato veramente tutto e se il mio posto non fosse questo?! Se avessi rubato il posto di qualcun'altro?!
Narratore (Michael Gambon): La domanda è: come avresti potuto rubare un posto che è stato creato solo per te?

John F. Donovan : Mamma posso restare qui stanotte?
Grace Donovan (Susan Sarandon): Amore, puoi restare anche tutta la vita!

John F. Donovan: Caro Rupert, non mi viene in mente un amico più eccezionale, nessuno potrà capire questa amicizia...finché non gliela racconterai tu!

 


 
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