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Messaggi del 19/03/2020

 

Notti magiche

Post n°15639 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Mondiali '90, Italia - Argentina, gli azzurri buttati fuori ai rigori, un uomo buttato nel Tevere a bordo di una macchina che non sa guidare. Produttore romano sull'orlo del fallimento, Leandro Saponaro è ripescato morto ma a ucciderlo non è stata l'acqua e nemmeno l'impatto. Giusy Fusacchia, ragazza coccodè e amante del Saponaro, giura che ad ammazzarlo sono stati tre aspiranti sceneggiatori: Eugenia Malaspina, Antonio Scordia, Luciano Ambrogi. Finalisti del Premio Solinas, i ragazzi si sono conosciuti pochi giorni prima a Roma in occasione della cerimonia. Eugenia è una ricca borghese ipocondriaca che odia il padre e ama un divo francese, Antonio è un messinese colto e formale come lo stile del suo soggetto (Antonello da Messina), Luciano è un baldo scriteriato che viene da Piombino. Ospiti per qualche giorno nella grande casa di Eugenia, che non vuole dormire sola, entrano nel mondo del cinema dalla porta d'ingresso, frequentando tutta la filiera e sognando di scrivere la sceneggiatura della vita. Finiranno invece al comando dei carabinieri a raccontare la loro versione dei fatti.

Dopo aver filmato l'America per la prima volta, in fuga tra Detroit e la Florida (Ella & John), Paolo Virzì ripiega in patria e firma una commedia gialla tesa a osservare l'intreccio profondo tra esistenze individuali e storia collettiva.

Attento soprattutto all'incidenza dell'ultima sulla vita del singolo, Virzì sceglie la risorsa del fuori campo anche per delineare il rapporto dialettico tra la calcistica giornata della polis e quella particolare della storia privata. La notte magica cantata da Gianna Nannini e auspicata dal tifoso italiano volge nella notte degli errori e propone un rendez-vous con la memoria, quella dell'autore e della sua generazione ma anche quella dello spettatore davanti all'eterno ritorno di un trio che avevamo tanto amato (Vittorio GassmanStefano Satta FloresNino Manfredi). Eugenia, Antonio e Luciano, esageratamente tipizzati, come a esibire un desiderio di fiction anziché di realismo, sono il residuo di quelle icone trasformate in lucciole fragili, (in)dimenticate e vibranti dentro una notte di scacco disegnata dal regista sulla locandina. Declinato al passato prossimo, Notti magiche mostra, in maniera instabile e con risultati variabili, che tutto quello che ha contato per noi è destinato a sparire, condannato a farsi rovina.
Questa elegia del cinema, che banchetta al "Re della mezza porzione abbondante", fa il punto su e dà commiato a un decennio affollato da veterani ed esordienti. Ficcato al debutto degli anni Novanta, il film di Virzì individua alcune delle tensioni dinamiche che stavano rivoluzionando gli scenari estetici: la ricomposizione del cinema italiano per aree geografiche (nello specifico l'area romana, siciliana e toscana), la creazione di conseguenza di un nuovo immaginario collettivo legato alla provincia italiana (la sequenza del ritorno di Luciano a Piombino), il crepuscolo dei padri fondatori (la silhouette di Fellini e i residui essenziali del suo cinema, il pozzo e la 'passerella di addio' di 8 1/2), la nascita di una generazione 'orfana' (lo sconforto delle nuove leve private dei maestri che sovente restano al palo, incapaci di interpretare la nuova realtà a-ideologica e globalizzante), il contributo degli sceneggiatori eredi della grande commedia all'italiana che legano il proprio retroterra culturale al 'nuovo cinema' (il laboratorio di Fulvio Zappellini), l'accentuazione di una comicità di facile resa e bassa qualità figliastra della commedia all'italiana (la ragazza coccodè, merce in grado di coprire un potenziale cinema medio), l'influenza dell'universo televisivo sul gusto (la sceneggiatura vincitrice su Antonello da Messina svenduta a puntate).

 
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qualcosa di troppo

Post n°15638 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 


Jeanne è un architetto 38enne sposata e con due figli "meravigliosi". Il suo matrimonio è in crisi ma lei pensa di risolvere le cose con un po' di terapia di coppia e qualche esercizio perineale. Peccato che il marito le riveli che aspetta un figlio da un'altra, facendo cadere Jeanne in depressione. La sua già scarsa fiducia in se stessa crolla definitivamente quando il giudice decide di accordare l'affido alternato dei figli all'ex marito fedifrago. È allora che la sua vita ha una svolta davvero inaspettata: la donna scopre da un giorno all'altro di avere un pene. E poiché è cresciuta nella convinzione che "se non hai un pisello non sei nessuno" la novità, per quanto sconvolgente, presenta le sue attrattive.
L'attrice comica francese Audrey Dana scrive, dirige e interpreta una commedia surreale che ha i pregi e i difetti del suo lavoro precedente, 11 donne a Parigi: dal lato dei pregi mostra una certa libertà e inventiva che si esprime soprattutto nel giocare con tutto ciò che ci si aspetta (anche cinematograficamente) da una donna e da un uomo; dal lato dei difetti sconta una tendenza all'esagerazione e allo stereotipo che grava il suo cinema di un elemento grottesco più sgradevole che divertente. Nella caratterizzazione di Jeanne, Dana mostra la stessa dualità: per un verso è buffa, rocambolesca e coraggiosa nel costruire il ritratto di una donna che è anche un po' un uomo, ma non lo diventa mai completamente; per un altro i suoi eccessi di attrice e autrice tolgono credibilità al personaggio che interpreta e rendono difficile ricondurre la Jeanne delle ultime scene a quella delle prime, poiché il cambiamento è eccessivamente radicale e precipitoso.
Accanto a lei Eric Elmosnino nei panni di un collega che si scopre attratto proprio dalla dualità di Jeanne è più sottile, mentre Alice Belaidi nei panni della vicina Marcelle sembra la macchietta della single aggressiva e arrabbiata con gli uomini, ma in fondo desiderosa di una relazione stabile. Il personaggio più credibile resta il ginecologo di Jeanne, il dottor Pace, interpretato con grande verve comica e saggio equilibrio da Christian Clavier (il papà di Non sposate le mie figlie!).
Quel che disturba, nella storia di Jeanne, è l'assunto per cui un pene regalerebbe automaticamente competenza, carisma e autorevolezza, dando conferma al presupposto per cui "è il pisello a fare l'uomo". Da quando la donna scopre di avere quel "qualcosa di troppo" di cui parla il titolo del film diventa infatti improvvisamente più efficiente sul lavoro, più decisionista e sicura nei rapporti con gli altri. Disturba anche l'assunto per cui ritrovarsi un pene fra le gambe equivalga ad avere il sesso come pensiero fisso e un'attrazione incondizionata verso chiunque abbia attributi femminili. Entrambi gli assunti sono banali e riduttivi, per non dire sessisti, e la situazione di Jeanne viene presentata come del tutto inconsueta, quando per certi versi è quella con cui si confronta ogni transessuale che ha scoperto di non appartenere al proprio sesso biologico.
Comicamente qui e là il palleggio con gli stereotipi di genere funziona, creando situazioni paradossali davanti alle quali il sorriso, se non proprio la risata, ci scappa. Ma un po' più di imprevedibilità nel tracciare il ritratto del maschile e del femminile, un po' più di profondità nel raccontare gli individui come esseri potenzialmente completi a prescindere dal loro sesso, avrebbero alzato il livello e dato al pubblico la possibilità di ragionare davvero su stereotipi e differenze, come hanno fatto film comici alla Tootsie o drammatici alla La moglie del soldato

 
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Disobbedience

Post n°15637 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Ronit, figlia del rabbino capo della comunità ebraico ortodossa di Londra, torna da New York, dove vive da lungo tempo, nella capitale britannica per i funerali del genitore. Qui ritrova Dovid, studioso della Torah, ed Esti di cui era amica e scopre che i due ora si sono sposati. Tra Ronit ed Esti c'era stata un'attrazione che un tempo aveva creato turbamento nella comunità e che ora rischia di tornare ad accendersi.

Sebastian Lelio continua la sua appassionata indagine sulla femminilità e sui pregiudizi che ancora ne condizionano la libera espressione.

Dopo il ritratto, al contempo tenero e drammatico, della cinquantenne Gloria e lo sguardo partecipe sulla condizione socio affettiva della trans Marina in Una donna fantastica si avvale ora del romanzo di Naomi Alderman e della collaborazione alla sceneggiatura di Rebecca Lenkiewicz.

Ciò che rende il suo cinema maschile e femminile insieme come intensità di sguardo è la sua straordinaria capacità di scegliere delle protagoniste in grado di sostenere fino in fondo ciò che lo script richiede loro. In questo caso siamo di fronte a Rachel Weisz e a Rachel McAdams (la prima anche coproduttrice) che danno vita a due personaggi analizzati nel profondo. Il che non esclude dalla valutazione positiva il Dovid di Alessandro Nivola. Perché questa di fatto è una storia a tre che richiede da parte dello spettatore una particolare attenzione all'omelia che il padre di Ronit tiene all'inizio del film.

È attorno ad essa che ruoterà una vicenda che viene ambientata nella comunità ebraico-ortodossa londinese ma che ha in realtà una valenza universale. Ritualità e dinamiche proprie dell'ebraismo vengono descritte con accuratezza ma ciò che a Lelio interessa non è l'ennesima denuncia dell'ortodossia di stampo religioso. O, meglio, ci si occupa anche di questo tema ma si guarda oltre.

 
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Headhunter

Post n°15636 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Celebre cacciatore di teste norvegese, Roger Brown è un uomo dalle apparenze di successo, a cui sembra non mancare nulla. Sposato con la bellissima e altissima Diana, gallerista d'arte, Roger abita in una bella villa dal mutuo stellare e conduce una vita al di sopra delle proprie possibilità. Per far quadrare i conti, svolge una seconda, segretissima attività: ruba quadri di valore. Quando la moglie gli presenta Clas Greve, un ex dirigente d'azienda olandese, Roger ha finalmente l'occasione del colpo della vita. Clas ha, infatti, ereditato dalla nonna una villa nella campagna norvegese e soprattutto un Rubens quotato centinaia di migliaia di euro. Ma il furto si rivelerà più complicato del previsto, perché Clas nasconde un oscuro passato.
La sequenza iniziale di questo film, in cui il protagonista si accinge a rubare un dipinto e in voce fuori campo ci spiega la fatalistica filosofia del ladro d'arte, racchiude la cifra stilistica di un thriller in cui l'ironia - rigorosamente nera e nordica - conta più dell'azione e dei suoi effetti pulp. Nonostante ciò, il ritmo è sempre sostenuto e si arriva con gusto a un finale un po' tirato, in cui il colpo di scena è meno interessante dello svolgimento centrale dell'intreccio.
Nell'adattare il best seller dell'apprezzato giallista norvegese Jo Nesbø, il connazionale regista Morten Tyldum ricalca la chiave umoristica del romanzo, mettendola nelle mani del protagonista interpretato da Aksel Hennie. L'attore è perfetto per incarnare le contraddizioni di un uomo tanto sfacciato e sicuro di sé all'apparenza, quanto sfiduciato e insicuro nell'intimo. Un capitalista di successo che proclama la superiorità della reputazione, ma che è schiacciato dal complesso dell'altezza. Dato che la moglie è una stangona abituata a essere corteggiata e desiderata, questo abile cacciatore di teste ritiene di doversi dare alla caccia di quadri per foraggiare il suo amore inconsapevole.
La trattazione sociale del mondo di squali famelici e paurosi in cui opera Roger Brown è gustosa, così come lo sono i primi tre quarti di questo thriller (autentico successo al botteghino norvegese) in cui l'adrenalina è generata più dalle caratterizzazioni di personaggi irriverenti che delle situazioni. Invece, l'ultima parte - quella in cui il confronto tra i due antagonisti si fa diretto - risente di qualche ingenuità di sceneggiatura, oltre che del buonismo e dell'inverosimiglianza del finale, che non è attribuibile al regista. Nel complesso, l'intrattenimento stuzzicante del prodotto non viene comunque intaccato.

 
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La ballata di Buster Scruggs

Post n°15635 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 


Un vecchio libro che contiene sei storie sul vecchio West apre le sue pagine per trasferirle, una dopo l'altra sullo schermo. Si va da Buster Scruggs pistolero cantante fino a una diligenza stipata di persone dirette passando attraverso impiccagioni e filoni d'oro.
I Coen, come è praticamente loro regola, minimizzano. Affermano di aver scritto dei racconti western e di aver poi desiderato di metterli insieme come nei film a episodi degli anni Sessanta italiani. Volevano i migliori registi disponibili e sono lieti che entrambi (cioè loro) abbiano accettato.

Dietro questo umorismo auto/ironico si nasconde di fatto un'operazione di qualità che si colloca alla perfezione nella linea del loro modo di fare cinema.

C'è infatti in ogni loro opera una cultura profonda e si potrebbe quasi dire maniacale che ama trovare opportunità di dissimulazione di volta in volta diverse. In questa occasione tocca a un genere, il western, che viene rivisitato in gran parte dei suoi elementi fondativi senza però cadere mai nella parodia o nella citazione di uno specifico film (altri direbbero 'omaggio') fine a se stessa. A partire dal primo episodio in cui il Buster Scruggs del titolo è un cowboy canterino che rimanda a una tipologia del western che risale all'introduzione del sonoro nel cinema e che già John Landis aveva bonariamente preso in giro ne I tre amigos. Qui però da subito le variazioni sul tema sono numerose e tutte riuscite. Il protagonista non solo è paragonabile a un usignolo ma è anche uno che sa come usare le armi e che sa come difendersi anche in loro assenza.

I Coen strutturano la loro antologia prendendosi dei rischi strutturali. Perché si ride e lo si fa più volte nei primi due 'racconti'. Poi il riso va progressivamente scemando salvo riemergere a tratti all'improvviso. Non scema però il livello qualitativo che consente alla narrazione di svariare dallo spaghetti western alle carovane senza dimenticare i nativi americani, il cercatore d'oro e, last but not least, la diligenza di fordiana memoria. Ed è qui che si rivela, in favore di chi non lo avesse già colto in precedenza, il fil rouge tematico declinato sotto i suoi più vari aspetti.

 
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Knight of cup

Post n°15634 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Rick è un uomo in crisi e in cerca di senso. Sceneggiatore a Los Angeles, ha perduto il contatto con la realtà e cerca la sua interpretazione nei tarocchi. Sospeso tra i set di Hollywood e le strade di L.A., Rick passa da un party all'altro e da una donna all'altra, provando a doppiare suo padre e a contenere suo fratello. Risvegliato nel profondo da un terremoto e da una voce ancestrale, insegue un dolore in Nancy e l'amore totale in Elizabeth. In mezzo, letti e piscine in cui godere, soddisfare, rivoltarsi e intorpidire. Davanti "la strada per l'oriente", quella di una favola antica e di una perla che Rick ha finalmente ricordato di cercare.
Abbiamo atteso The Tree of Life, come la maggior parte dei film di Terrence Malick, per anni e con un'impazienza ossequiosa. All'improvviso l'autore americano ha colmato i lunghi intervalli di tempo della sua produzione, realizzando a breve distanza due film. L'accelerazione la comprendiamo meglio alla luce di To the Wonder e di Knight of Cups, pure emanazioni di quel'albero. Albero che il sarcasmo ha voluto abbattere e un rispetto reverenziale 'ascendere'. Perché il cinema di Terrence Malick produce riflessioni divergenti nel tentativo di cercarvi l'ordine narrativo o la razionalità dello stile.
Se storia, personaggi e luoghi si rinnovano, To the Wonder sboccia una storia d'amore a Parigi e la smarrisce negli States, Knight of Cups insegue l'errare di uno sceneggiatore cacciatore di perle in un universo di strass e paillettes, la messa in scena è quella di The Tree of Life. Quei piani, quegli spazi, quei tempi infiniti e quei vuoti di tempo, quella maniera di precipitare in apnea dentro gli infinitesimali frammenti della vita, quei monologhi interiori, i presentimenti, lo sguardo liquido, i liberi accostamenti, l'assenza di coordinate, le aritmie, che producevano lo stupore nei film precedenti, lo hanno infine disattivato. Il luogo comune ha divorato progressivamente la meraviglia.
Knight of Cups, storia di un cavaliere errante che cerca una coppa e finisce nel calderone (di Hollywood), si alimenta ancora di una prospettiva filosofica e di inquadrature tra terra e cielo, tra mare e cielo, gettando lo sceneggiatore di Christian Bale nei marosi, nella crisi e nel dubbio della sua coscienza. 'Smazzando' immagini come carte dei tarocchi, Malick scandisce il film in capitoli accordati agli arcani (la Luna, l'Appeso, l'Eremita, la Papessa, etc) e infila un percorso iniziatico e una dimensione superiore, in cui il disordine della mondanità sfuma nel silenzio che 'sente' il divino. Knight of Cups rilancia la contraddizione tra la percezione della vita rivelata e il travaglio (in)gestito da Rick, che frequenta le dimore delle stars, 'guidato' dalla mappa di David Cronenberg. Perché Knight of Cups si muove con maniera nell'industria dell'intrattenimento, tra strip e draggy dance party, tra club e photo shoot. Daccapo il dualismo, da un lato la realtà sublime di chi scrive le immagini, dall'altro le ricadute materiali dell'uomo. Rick abita nel paese dei sogni (e del sogno) ma ha smarrito lo stupore, quello che Malick ci rovescia in primo piano come l'onda di un oceano. L'oceano che lo ha annegato e da cui adesso Rick prova a riemergere. A questo giro di giostra è la coppa del titolo il richiamo ancestrale, l'archetipo legato alla necessità che ha sempre avuto l'uomo di raccogliere e trattare l'acqua della vita che per la sua natura sfugge alla presa.
A sfuggire alla comprensione è pure l'irriducibile ambizione di filmare l'infilmabile interiorità dell'essere, insistendo sul corpo offeso di un homeless e su quello magnificato di una modella. A rammaricare amaramente è scoprire che per Malick non conta niente altro che la meraviglia. Un sentimento di viva sorpresa che rivela dentro pagine straordinarie un'esperienza amatoriale delle cose umane

 
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Abel il figlio del vento

Post n°15633 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

In un nido di aquile il primo nato scaccia il secondo facendolo precipitare. A trovare l'aquilotto è un bambino, Lukas, che ha un difficile rapporto con il padre cacciatore. Lukas gli tiene nascosta la presenza del rapace mentre cerca di farlo crescere anche con l'aiuto di Danzer, un guardaboschi. Giungerà anche il momento di insegnare ad Abel (così è stato battezzato pensando al fratello Caino che voleva la sua morte) a volare rischiando così una separazione.
Nel panorama sempre più asfittico nelle nostre sale dei film cosiddetti 'per famiglie', Abel si presenta con caratteristiche del tutto particolari che lo rendono degno di un'attenzione speciale. Perché se si guarda al plot di base si può legittimamente pensare a una storia già sfruttata dal cinema: il rapporto tra un bambino e un animale che si presenta non privo di difficoltà. Qui però c'è molto di più perché la produzione ha fuso una storia con tanto di voce narrante con immagini documentaristiche di altissimo livello a cui il grande schermo rende giustizia.
Le riprese, sia dei rapaci che degli altri animali che popolano le vallate e le cime dell'area del Tirolo, dove sono state effettuate le riprese, si integrano alla perfezione con la vicenda narrata e sono tutte frutto di un lungo e non facile lavoro di 'pedinamento' degli animali.
C'è poi il versante dei rapporti adulti /bambini (e non è secondario per un film che si rivolge ai più giovani). Così come Abel è orfano anche Lukas ha perso la mamma e il modo in cui è accaduto ha fatto sì che il suo rapporto con il padre si deteriorasse. Ora si trova lui a fare da 'padre' all'aquilotto e, con l'aiuto di una specie di nonno (anche se non come età) che è poi il narratore della storia, deve arrivare ad accettare il pensiero che un giorno Abel si separerà da lui.
Sono temi troppo spesso evitati nel confronto familiare e che il cinema raramente riesce a rappresentare ad altezza di bambino. In questa occasione l'operazione è riuscita grazie a un film che può appassionare i figli ma che offre agli adulti immagini dell'ambiente naturale di grande bellezza.

 
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Un nemico che ti vuole bene

Post n°15632 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

In una notte di pioggia il professore di astrofisica Enzo Stefanelli soccorre e salva un giovane ferito da un colpo di pistola. Così gli deve ora riconoscenza e decide di dimostrargliela in un modo particolare. Visto che è un killer di professione, è pronto a uccidere gratuitamente quello che Enzo considera il suo peggior nemico. Il professore inizialmente si ritrae: non pensa di avere nemici. Il killer lo spingerà a guardarsi intorno e progressivamente le idee di Enzo cambieranno.

Questa produzione italo-svizzera trova il suo punto di forza nel confronto tra due scuole di recitazione: quella di un attore consumato come Diego Abatantuono e quella di Antonio Folletto che il grande pubblico ha imparato a conoscere nel ruolo del giovane poliziotto ne I bastardi di Pizzofalcone.

Sono due modi di affrontare la commedia che si integrano nella loro diversità: tutto toni smorzati quello di Diego, carico di esuberanza appena trattenuta quello di Folletto. I due hanno a disposizione una sceneggiatura che trae origine da una vicenda realmente accaduta trasformata poi in un racconto da una firma di eccellenza come è quella di Krzysztof Zanussi.

Il regista Rabaglio afferma che più raccontava la situazione iniziale più trovava persone interessate al suo sviluppo. Il problema nasce però da qui, dallo sviluppo. Pur avendo tra i co-sceneggiatori una firma importante come Heidrun Schleef, la storia, dopo una prima parte in cui viene delineato con acume l'ambito familiare e professionale del protagonista e si induce lo spettatore a chiedersi se il professore saprà o meno conservare la sua dirittura morale, corre verso un finale a cui manca la coerenza con le premesse. Alcune situazioni si perdono nel nulla (vedi l'annunciato matrimonio) e, fatto ancor più rilevante, la coproduzione impone l'improbabile compresenza di alcuni personaggi in una località turistica svizzera di alto livello.

Si giunge così ad un finale forzato che vanifica parte delle premesse. Rimarrà comunque nella storia della commedia italiana l'occasione unica di vedere Sandra Milo duettare con un attore che forse non avrebbe mai immaginato di incontrare su un set, nel ruolo di un figlio vessato: Diego Abatantuono

 
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Il mio nome è Thomas

Post n°15631 pubblicato il 19 Marzo 2020 da Ladridicinema
 

Thomas parte dall'Italia per raggiungere il deserto nella zona di Almeria dove poter meditare sulle pagine di un libro che ama in modo particolare. Poco dopo la partenza sulla sua Harley Davidson aiuta una ragazza, Lucia, a fuggire da due tipi poco raccomandabili a cui lei ha sottratto del denaro. Anche la ragazza ha per meta la Spagna dove dice di essere attesa da una zia scrittrice. Il viaggio, in cui non mancheranno occasioni per perdersi di vista per poi incontrarsi di nuovo, li spingerà a conoscersi e a comprendersi.

Terence Hill ha accarezzato il sogno di dirigere questo film per un decennio. L'idea era quella di fondere il contenuto di un libro a lui molto caro con una storia che fosse contemporanea ma anche evocatrice di un senso di epicità.

Il libro è "Lettere dal deserto" di Carlo Carretto nei confronti del quale il film avrebbe già compiuto un'importante missione se spingesse chi non lo conosce a leggerlo. Si tratta di meditazioni sulla fede scritte da un uomo che fu sempre 'scomodo' per la Chiesa ufficiale proprio perché dall'interno ne segnalava le contraddizioni. Basti sapere che nel 1974 aderì al movimento "Cristiani per il NO", opponendosi a chi voleva abrogare con un referendum la legge sul divorzio.

Detto ciò nessun timore: Terence non ci fa nessuna predica, non trasferisce Don Matteo ad Almeria. Semmai invita Trinità (il film è dedicato all'amico Bud) a compiere un viaggio in cui oltre a padelle usate come corpi contundenti, a moto che sostituiscono i cavalli e all'inevitabile scazzottata ci si prenda il tempo anche per guardare le stelle. Magari in compagnia di una giovane donna che ha alle spalle un passato non facile e che sta cercando se stessa tra molteplici incertezze.

 
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