L'atrabilioso

Chinatown. La genesi. Un'ipotesi di prologo per uno spettacolo.


Da piccolo, abitavo nella piazza del paese. Proprio di fronte al bar. Si chiamava, non so perchè, il bar dell'Oca.La finestra della mia stanza aveva una specie di parapetto in cemento, io sedevo per terra e tra le colonnine spiavo fuori, non visto.Il bar era affollato e la gente si riversava fin sulla strada. C'era un vociare allegro fino alla sera tardi, specialmente d'estate. Ma poi chissà se era davvero così. Dicono che i ricordi mutano nel tempo, addirittura si costruiscono da soli, alimentati da racconti, cose viste altrove, sogni.Chissà se presentivo un destino, oltre i vetri illuminati di quel locale all'epoca ancora rudimentale, spartano, ma soprattutto invalicabile, per me così piccolo.Quando, più grande, finalmente scesi in strada, presi coraggio e mi dissi: è tempo di diventare grande, andiamo al bar.Lì dentro son passate generazioni di uomini e anche - per fortuna - di donne. E generazioni di baristi. Ai baffi sardonici di Zàisar seguì la flemma modenese di Fredo e soprattutto della figlia, talmente scattante che venne ribattezzata Florence, come la cameriera dei Jefferson, quella che quando suonavano alla porta il padrone di casa urlava:"Florence, hanno suonato!" "Lei è più vicino!" rispondeva quella. Tanto per capirci.Poi - dopo qualche anno un po' apatico col sonnacchioso Gigi, talmente anonimo e indolente che non mi ricordo più nemmeno che faccia avesse - ecco, un giorno, mentre ero alla mia solita postazione a leggere Repubblica, vidi entrare un orientale. Giacca e cravatta e valigetta, capelli imbrillantinati, serissimo. Mi si avvicinò."Tu essele padlone?""Ehm..no""Dove essele padlone?""Non saprei, forse nel retro. ...Gigi!"Gigi arrivò. Si sedette a un tavolino con  l'orientale, che aprì la valigetta. Gigi ebbe un sussulto. Era la prima volta nella sua vita, suppongo. La trattativa non ebbe bisogno di ulteriori incontri.Due giorni dopo il glorioso bar dell'Oca aveva cambiato nome.Era nato Chinatown.