L'atrabilioso

Diecimila giorni


 C’è un latrare di cani in lontananza, sul fare del giorno. E la campana di qualche chiesa. Aria fradicia sui campi. I rumori mi giungono attutiti, a volte si spezzano a metà. Ho come un sapore in gola. Qualcosa di struggente che avevo rimosso, ma mai svanito del tutto. Ci sono io bambino, certe sere lasciato a dormire dai nonni. Nessun rumore, se non quei flebili rumori di fuori; gli occhi spalancati nell’oscurità, liberavo la mia immaginazione. E nel buio, proprio accanto alla porta della stanza, c’era, ci doveva essere per forza, un’altra porticina. Entrando, uno stretto cunicolo mi introduceva in un salone enorme, pieno di oro, di suoni, di luci. E più oltre, tutta una serie di mondi avventurosi. Doveva essere solo il frutto di qualche sogno fatto in precedenza, ma questo pensiero ricorrente si era fatto come reale. Mi ero convinto che esistesse davvero tutto questo. Dentro di me, ero sicuro di esserci stato davvero, al di là. Così mi addormentavo. E la vita che mi stava correndo incontro, doveva per forza essere meravigliosa.