L'atrabilioso

Non avevo nemmeno il coraggio di guardarti in faccia


Ho cominciato a dare un'occhiata ad alcuni blog di poesia. Devo dire che tra questi ce n'è anche qualcuno di talento.  (No, tranquilli, non ho intenzione di sottoporvi le mie liriche. Beh, a dire il vero ce ne sarebbe una che mi gira in testa da un po', ma è talmente brutta che ho deciso di non recitarla nemmeno a me stesso: è rimasto solo il titolo, che poi è il titolo di questo post).Non so quanto durerà, probabilmente mi stancherò in fretta. La poesia richiede fede e dedizione, si deve essere pronti alla deriva, e io sono troppo ateo e pigro, troppo pavido e pieno di terra. Ci ho provato, eh? convinto come sono, che il mondo abbia molto bisogno di poesia. Sul serio, ma credo non faccia per me. Nella mia libreria fanno bella mostra di sè alcuni libri, non tutti consumati in ugual misura. Whitman, piuttosto consumato. Pavese, ahimè non abbastanza consumato. Bukowski, molto, molto consumato. Leopardi, quasi intatto. E Rimbaud. Soprattutto Rimbaud. Il volume con le sue poesie cade letteralmente a pezzi. E' un incontro che a diciassette anni può essere fatale. Beh, per me lo fu. Al punto da affrontare ben due viaggi a Charleville, negli anni successivi. Volevo andare sulla tomba del vate, e farmi ispirare dalla sua lapide. Oh, Arthur, indicami la via! Ma Arthur non rispondeva. E' che forse non l'avevo ancora capito, che se c'è un anti-vate, quello è proprio Rimbaud. Ma io volevo essere come lui, volevo essere lui, fare come lui. Anche io volevo scrivere "merde à dieu!" sulle panchine del parco, anch'io volevo sputare in faccia ai borghesi, anch'io volevo pisciare fuori la notte " con il consenso dei grandi eliotropi", anch'io volevo sbronzarmi di assenzio, anch'io volevo passare le Alpi a piedi. Non ho fatto nulla di tutto questo, naturalmente. Quando è arrivato finalmente l'assenzio, assomigliava in tutto e per tutto alla Sambuca. Non sono questo gran camminatore e se mi guardo adesso, alla fine dei conti ho proprio l'aspetto di un borghese. Ma i suoi versi restano.La seconda volta che tornai a Charleville andai a cena in un piccolo ristorante del centro. Il cameriere era un ragazzino dai capelli biondicci che nella mia immaginazione doveva somigliare parecchio al mio Faro. Lo chiamai, e nel mio francese stentato, con grande raccapriccio della mia fidanzata di allora che, povera, mi accompagnava, dissi: "olà, garçon, ma ti rendi conto? Sei a Charleville, la patria del poeta, e ti muovi tra i tavoli come se questo non volesse dir nulla. Su, vieni qui e parliamo un poco di Rimbaud, ça va?". Lui mi guardò stupito e poi fece una faccia come dire: che palle, 'sto Rimbaud. E io: "j'ai compris, garçon. Vai, vai".La poesia è roba per cuori forti.