L'atrabilioso

Roma


E' stato dieci anni fa. Alcuni mesi.Vivevo a casa di una vecchia attrice di teatro che affittava le stanze del suo appartamento. Lei non si faceva quasi mai vedere, e quando per caso la incrociavo nel corridoio mi diceva:"Non guardarmi, non guardare questa vecchia faccia. Io non sono più. La vera Giuliana è quella" e indicava una fotografia alla parete dove c'era lei giovane, con un nastro nei capelli.Se le prendeva un momento di tenerezza, diceva:"Per noi era così facile. Era il lavoro che ci veniva a cercare. Adesso davvero, non so come facciate. E' una pena. Io non riuscirei mai". Nemmeno io ci riesco più, volevo dirle. Ma non potevo permettermelo, e mettevo su la faccia di chi ci crede ancora.Oppure a volte bussava piano alla porta della mia stanza e sussurrava, quasi scusandosi: "Ti prego, domani sera cerca di tardare un po' di più. Viene un amico a trovarmi. Grazie, sai?" e poi aggiungeva "Ah, ti ho lasciato del vino in cucina". Non la vedevo per settimane.La casa era buia, e io stavo sempre nella mia stanza.Di fronte alla mia finestra, dall'altra parte della strada, c'era una casa con un grande terrazzo, e ci abitava una ragazza con la madre, credo. La ragazza mi sembrava bella, con i capelli a caschetto, e non sorrideva mai. Guardava con la faccia seria nella mia direzione. La madre era più cordiale, usciva anche lei sul terrazzo e a volte faceva come un cenno di saluto. Io rispondevo con la mano. Eravamo all'inizio della primavera, una volta gridò anche qualcosa come:"E' una bella giornata, finalmente! Non è vero?"Io rispondevo:"Sì, bella!"Potevano essere le uniche parole che pronunciavo per ore.Nella mia stanza non c'era niente, solo un vecchio armadio tarlato e una piccola scrivania. Sopra avevo messo un lettore cd, e ascoltavo sempre lo stesso disco "Old Rottenhat" di Robert Wyatt: "There is a kind of compromise..." con quella voce stupenda che sembra sempre sul punto di spezzarsi. Ancora adesso quando lo riascolto mi sembra di sentire l'odore stantìo di quella camera.La sera a volte scrivevo due righe. La mattina rileggevo e buttavo.I giorni sembravano tutti uguali. Prendevo un'infinità di autobus per andare da un capo all'altro della città a lasciare un curriculum in mani svogliate o a cercare di parlare con casting director sempre troppo affaccendati o a cercare di scambiare due parole con titolari di agenzie sempre poco interessati.La sera bevevo un po' troppo per riempire il vuoto delle giornate perdute. Quando tornavo di pomeriggio, facevo un giro nella zona dove stavo. Monteverde vecchio, il Gianicolo.Pensavo a quel passaggio di un romanzo di Pavese ("Il Compagno" forse, ma non ricordo bene) dove c'è lei che gira per la città e a un certo punto dice "Com'è bella questa Roma".A volte provavo a dirmelo anch'io. Com'è bella questa Roma.Dentro, non sentivo più niente.