Disegnavo un piccolo capanno ogni sera un po’ più grande finchè un giorno mi notasti, domandandomi per cosa avevo tanta cura, se all’interno stava il vuoto -Ho visto un cavallo libero nei prati in cima a Montevenere, non posso chiuderlo se non sa chi sono, che gli voglio bene per come brilla al sole, ma nel capanno c’è il pastone e la paglia fresca Forse un giorno, se l’aspetto.. se gli aggiungo delle cose…- Mia madre si commosse, e come premio degli esami in terza media riempì il capanno con Zahir, il primo nel disegno. C’è tanto amore in questo andare indietro a cogliere la bellezza cieca da proiettare nell’invisibile presente in ogni sillaba si alza ancora la Tua voce di Maestro, e tu Blanchot dicevi della poesia: che nasce nel movimento in cui Orfeo perde Euridice. Nel distacco è l’infinito andare della scia d’argento o quando la gioia di vivere non basta e scrivi Con la lingua degli angeli mi hai insegnato a morire per tornare nella mastella di lino con le braccia girando nell’acqua tiepida la crusca coi germogli di soia, a rimanere, quando in mezzo alle gambe stringevo altre zampe ferrando i cavalli , come allacciare le scarpe a un bambino. vedendo l’intoccabile: l’anguilla che fa morire, dentro la pancia dei cavalli, premendo il viso, e curare il respiro, se cattivo , cercando le sanguisuga, tra l’acqua più chiara, da mettere al collo per vivere. Per poche ore è così che Zahir ritrovava il suo galoppo col salasso più antico. Pitturavi nell’aria quel salto volando sui fianchi a Soraya, tirandola appena verso di te. Mi guidavi come danzare sopra la cima di Montevenere, dal primoamore, passando per Le Croci e sotto l’abetaia di Rossara sdraiando le nostre schiene, come fossimo sull’acqua, a ginocchia strette, con la passione di affidarsi, entravamo nei boschi acquattati come bestie, negli occhi delle mucche e poi giù, giù col baio chiaro, con il fulvo sulla pelle umida del corpo parlandoci senza bocca, col sudore morbido ai polpacci e il suono dell’orgasmo tra le dita e le redini sottili, accogliendo nella pancia la discesa, l’alfabeto baciato degli zoccoli. c’è un punto esatto- mi segnavi- tra le orecchie dei cavalli , piccoli movimenti impercettibili che congiungono le punte dritte nella luce formando un otto, solo lì, è dove ti alzi in verticale e voli via leggero, risparmiando le salite All’inizio dell’autunno mi hai bendato gli occhi con una lana a fiori che pungeva per dirti gli anni dei cavalli o dei dolori con le mani carezzavo il naso, quei gradini come rughe che vengono nel tempo, affondavo piano con le dita sotto gli occhi, nei fossetti; passando poi tra i tendini e i nodelli, imparavo le fatiche, e le fessure prima della coda, per la fame, immaginando la magrezza, dei cavalli nuovi infine… mi chiedevi la prova che stordiva : del colore strofinando il pelo, se aveva delle macchie, se grigio o come: sapevo dalle setole i colori, dallo spessore, e la temperatura svelava sopra i polsi con dolcezza se le femmine avevano il calore. Era tutto come amare. Se stringo forte gli occhi sono al centro del cortile ancora oggi mentre tu mi vieni incontro tenendo un cavallo per la corda poi due e tre per scoprire il suono che marca dentro il passo tra di loro dove la zoppia, di chi, su quale fianco, avanti o dietro. Alla fine dell’inverno cavalcavo come cieca nel tondino ed ero dentro gli animali e dentro il bosco quando tremavano col manto a una pozzanghera, o tendevano la schiena a un ramo basso. Annusavo il buio dei ragazzini ciechi, che sarebbero arrivati a primavera, per vedere con gli occhi dei cavalli la bellezza fino in fondo alla luce dell’estate Sei stato dell’invisibile Maestro, chi ha fatto i segni sulla strada per affidarsi al buio, per tornare al Vuoto del capanno con il suono di ogni albero, quando si piega, indicandoti la via.
Disegnavo un piccolo capanno
Disegnavo un piccolo capanno ogni sera un po’ più grande finchè un giorno mi notasti, domandandomi per cosa avevo tanta cura, se all’interno stava il vuoto -Ho visto un cavallo libero nei prati in cima a Montevenere, non posso chiuderlo se non sa chi sono, che gli voglio bene per come brilla al sole, ma nel capanno c’è il pastone e la paglia fresca Forse un giorno, se l’aspetto.. se gli aggiungo delle cose…- Mia madre si commosse, e come premio degli esami in terza media riempì il capanno con Zahir, il primo nel disegno. C’è tanto amore in questo andare indietro a cogliere la bellezza cieca da proiettare nell’invisibile presente in ogni sillaba si alza ancora la Tua voce di Maestro, e tu Blanchot dicevi della poesia: che nasce nel movimento in cui Orfeo perde Euridice. Nel distacco è l’infinito andare della scia d’argento o quando la gioia di vivere non basta e scrivi Con la lingua degli angeli mi hai insegnato a morire per tornare nella mastella di lino con le braccia girando nell’acqua tiepida la crusca coi germogli di soia, a rimanere, quando in mezzo alle gambe stringevo altre zampe ferrando i cavalli , come allacciare le scarpe a un bambino. vedendo l’intoccabile: l’anguilla che fa morire, dentro la pancia dei cavalli, premendo il viso, e curare il respiro, se cattivo , cercando le sanguisuga, tra l’acqua più chiara, da mettere al collo per vivere. Per poche ore è così che Zahir ritrovava il suo galoppo col salasso più antico. Pitturavi nell’aria quel salto volando sui fianchi a Soraya, tirandola appena verso di te. Mi guidavi come danzare sopra la cima di Montevenere, dal primoamore, passando per Le Croci e sotto l’abetaia di Rossara sdraiando le nostre schiene, come fossimo sull’acqua, a ginocchia strette, con la passione di affidarsi, entravamo nei boschi acquattati come bestie, negli occhi delle mucche e poi giù, giù col baio chiaro, con il fulvo sulla pelle umida del corpo parlandoci senza bocca, col sudore morbido ai polpacci e il suono dell’orgasmo tra le dita e le redini sottili, accogliendo nella pancia la discesa, l’alfabeto baciato degli zoccoli. c’è un punto esatto- mi segnavi- tra le orecchie dei cavalli , piccoli movimenti impercettibili che congiungono le punte dritte nella luce formando un otto, solo lì, è dove ti alzi in verticale e voli via leggero, risparmiando le salite All’inizio dell’autunno mi hai bendato gli occhi con una lana a fiori che pungeva per dirti gli anni dei cavalli o dei dolori con le mani carezzavo il naso, quei gradini come rughe che vengono nel tempo, affondavo piano con le dita sotto gli occhi, nei fossetti; passando poi tra i tendini e i nodelli, imparavo le fatiche, e le fessure prima della coda, per la fame, immaginando la magrezza, dei cavalli nuovi infine… mi chiedevi la prova che stordiva : del colore strofinando il pelo, se aveva delle macchie, se grigio o come: sapevo dalle setole i colori, dallo spessore, e la temperatura svelava sopra i polsi con dolcezza se le femmine avevano il calore. Era tutto come amare. Se stringo forte gli occhi sono al centro del cortile ancora oggi mentre tu mi vieni incontro tenendo un cavallo per la corda poi due e tre per scoprire il suono che marca dentro il passo tra di loro dove la zoppia, di chi, su quale fianco, avanti o dietro. Alla fine dell’inverno cavalcavo come cieca nel tondino ed ero dentro gli animali e dentro il bosco quando tremavano col manto a una pozzanghera, o tendevano la schiena a un ramo basso. Annusavo il buio dei ragazzini ciechi, che sarebbero arrivati a primavera, per vedere con gli occhi dei cavalli la bellezza fino in fondo alla luce dell’estate Sei stato dell’invisibile Maestro, chi ha fatto i segni sulla strada per affidarsi al buio, per tornare al Vuoto del capanno con il suono di ogni albero, quando si piega, indicandoti la via.