CONTROSCENA

Viviani, chi resta e chi parte


Appena s'apre il sipario, sentiamo il coro dei disoccupati prelevato da «Festa di Piedigrotta», quello che si conclude con la sentenza scorata, e validissima e inoppugnabile ancora oggi: «E chisto è Napule, / ca tene cante e suone: / nun magna pe' ffa' 'e ccanzone, / nun dorme pe' s' 'e ccanta'!». Ad intonarlo, però, è una banda di avvinazzati.   Ecco, basterebbe quest'invenzione a dire dell'intelligenza messa in campo da Armando Pugliese, regista della riedizione di «Napoli: chi resta e chi parte» che la Komiko Production presenta all'Augusteo. Rispetto all'omonimo spettacolo che Giuseppe Patroni Griffi portò in scena trentasei anni fa, un'autentica pietra miliare nella storia del teatro, Pugliese sostituisce alla sottrazione l'accumulo, e al posto dell'ovattata e asfittica atmosfera da Mitteleuropa in cui Patroni Griffi calava i due atti unici di Viviani che compongono l'allestimento («Caffè di notte e giorno» e «Scalo marittimo») ne determina una grottesca, per giunta vestita dei toni e dei ritmi propri dell'intera drammaturgia «leggera» napoletana, dalla farsa al varietà.   Così, la stessa operazione di rottura condotta contro i canoni dell'oleografia da Patroni Griffi viene compiuta da Pugliese per vie autonome e originali, che giungono soprattutto al risultato - vedi per l'appunto la citata sequenza iniziale - di battere in breccia la retorica, «gelando» quanto di sanguigno e carnale (e cioè quanto a una lettura superficiale potrebbe riuscire patetico o datato) si riscontra nei testi vivianei.   Farei, al riguardo, almeno gli esempi della danza frenetica intorno al naso delle dita del cocainomane Don Simone e del filo interminabile di salsicce, un vero gioco di prestigio, che «'o guaglione» tira fuori dalla borsa del «signore del baule». E in tal modo s'impongono senza orpelli, attraverso la sottolineatura per contrasto, le caratteristiche speciali degli atti unici in questione: «Caffè di notte e giorno» (1919) segna il passaggio di Viviani a una più scoperta posizione ideologica, tradotta da quel cameriere, Giacomino, che assurge al ruolo di giudice della società, e «Scalo marittimo» (1918) mette a fuoco la coralità - tradotta dalla folla di emigranti, sfruttatori, borghesucci e povericristi qualunque accalcata sotto il piroscafo «Washington» in partenza per l'Argentina - che doveva poi divenire uno degli aspetti fondamentali del teatro di don Raffaele.   In linea con un simile impianto, nella scenografia di Andrea Taddei lo stesso «Washington» si riduce a un'allusione simbolica: quella parete nera, in cui s'aprono in alto due fori circolari e sotto di essi una fenditura che si richiuderà dopo aver ingoiato tutti i passeggeri, fa pensare a un Polifemo disteso sul fianco. E non da meno sono gli arrangiamenti delle musiche firmati da Adriano Pennino. Basta considerare le sincopi che aggrediscono la linea melodica del canto disperato della prostituta Celeste, «E aspettammo, aspettammo ca vene...».   Anche gl'interpreti, infine, contribuiscono a sostenere l'idea registica: accanto a un Sal Da Vinci (l'ubriaco, Tore, Colantonio, Mincuccio, Sasà Florio, «'o guaglione») che s'affida a una fisicità verace, vanno citati se non altro gli straordinari Ciro Capano (Don Simone, il posteggiatore, Pascale), Tonino Taiuti (Giacomino, il domestico), Lalla Esposito (Celeste, Ermelinda) e, unico superstite dello spettacolo del '75, Gigio Morra (Don Carlo, «il signore del baule»). Sensibili problemi di acustica hanno penalizzato la «prima». Ma si risolveranno. Conta l'omaggio che con questo «Napoli: chi resta e chi parte» Francesca Scarano ha voluto rendere a Patroni Griffi e al padre Lello, il produttore dell'edizione storica.                                                 Enrico Fiore(«Il Mattino», 15 maggio 2011)