Siamo d'accordo, quella lettura drammatizzata di brani tratti da «Paolo Borsellino essendo Stato» di Ruggero Cappuccio (l'hanno presentata al Verdi di Salerno Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia - Art. 3) era soprattutto un omaggio alla memoria del giudice palermitano e la testimonianza dell'impegno che, nel solco della sua alta lezione morale e civile, tanti altri magistrati continuano a profondere nelle terre di mafia. Tuttavia, proprio il fatto che non si è trattato di uno spettacolo vero - che, cioè, i problemi messi in campo da Cappuccio non sono stati recitati da attori (e quindi carcerati nella finzione scenica) ma detti (e quindi chiamati, in senso biblico) per l'appunto da magistrati che li vivono giorno dopo giorno nel fuoco della realtà - ha prodotto due risultati significativi, e rilevanti perché complementari: da un lato è stata neutralizzata la letterarietà esibita che a tratti appesantisce il testo e dall'altro è stata esaltata l'idea profonda che lo muove. Qui Paolo Borsellino è colto nell'attimo infinitesimale tra la fine della vita e l'inizio della morte. Si fa un enorme silenzio. Ed è il silenzio dei «sordi» e dei «muti», in uno col radicale rifiuto dell'ideologismo. Che cosa poteva rendere meglio un simile sbocco folgorante se non il tono - sommesso, freddo e pure indomito - adottato, nei panni del suo collega assassinato, da Franco Roberti, il procuratore della Repubblica di Salerno? Efficaci anche gli altri magistrati che lo hanno affiancato per la regia del procuratore aggiunto Umberto Zampoli: Maria Teresa Belmonte, Lucia Casale, Ornella Dezio, Maria Chiara Minerva, Rocco Alfano e Luigi D'Alessio. Teatro gremito, e alla fine tutti in piedi, per una «standing ovation» fiera e commossa insieme. Riassumendo, il valore non comune dell'evento sta nell'aver accolto il monito forte che chiude «Prima del silenzio» di Patroni Griffi, quello che sempre più spesso accade di dover citare nel nostro tempo indifferente: «Ogni uomo che muore / risorge in un altro che nasce. / La parola che non trova asilo / nella bocca dell'uomo / è già la morte - senza resurrezione». Enrico Fiore(«Il Mattino», 9 giugno 2011)
Magistrati in scena per Borsellino
Siamo d'accordo, quella lettura drammatizzata di brani tratti da «Paolo Borsellino essendo Stato» di Ruggero Cappuccio (l'hanno presentata al Verdi di Salerno Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia - Art. 3) era soprattutto un omaggio alla memoria del giudice palermitano e la testimonianza dell'impegno che, nel solco della sua alta lezione morale e civile, tanti altri magistrati continuano a profondere nelle terre di mafia. Tuttavia, proprio il fatto che non si è trattato di uno spettacolo vero - che, cioè, i problemi messi in campo da Cappuccio non sono stati recitati da attori (e quindi carcerati nella finzione scenica) ma detti (e quindi chiamati, in senso biblico) per l'appunto da magistrati che li vivono giorno dopo giorno nel fuoco della realtà - ha prodotto due risultati significativi, e rilevanti perché complementari: da un lato è stata neutralizzata la letterarietà esibita che a tratti appesantisce il testo e dall'altro è stata esaltata l'idea profonda che lo muove. Qui Paolo Borsellino è colto nell'attimo infinitesimale tra la fine della vita e l'inizio della morte. Si fa un enorme silenzio. Ed è il silenzio dei «sordi» e dei «muti», in uno col radicale rifiuto dell'ideologismo. Che cosa poteva rendere meglio un simile sbocco folgorante se non il tono - sommesso, freddo e pure indomito - adottato, nei panni del suo collega assassinato, da Franco Roberti, il procuratore della Repubblica di Salerno? Efficaci anche gli altri magistrati che lo hanno affiancato per la regia del procuratore aggiunto Umberto Zampoli: Maria Teresa Belmonte, Lucia Casale, Ornella Dezio, Maria Chiara Minerva, Rocco Alfano e Luigi D'Alessio. Teatro gremito, e alla fine tutti in piedi, per una «standing ovation» fiera e commossa insieme. Riassumendo, il valore non comune dell'evento sta nell'aver accolto il monito forte che chiude «Prima del silenzio» di Patroni Griffi, quello che sempre più spesso accade di dover citare nel nostro tempo indifferente: «Ogni uomo che muore / risorge in un altro che nasce. / La parola che non trova asilo / nella bocca dell'uomo / è già la morte - senza resurrezione». Enrico Fiore(«Il Mattino», 9 giugno 2011)