Intendiamoci, è importante che il Napoli Teatro Festival Italia sia stato salvato. Ma risulta piuttosto difficile esprimere un giudizio sul programma di questa sua quarta edizione: siamo di fronte a un ibrido, determinato dalla compresenza (e dallo scontrarsi) dell'idea di teatro e delle scelte del direttore precedente, Renato Quaglia, e dell'idea di teatro e delle scelte di quello attuale, Luca De Fusco. Per riassumere con un solo esempio, abbiamo da un lato «Le dragon bleu» di Lepage e dall'altro «L'opera da tre soldi» di Brecht, diretta dallo stesso De Fusco e interpretata da Lina Sastri e Massimo Ranieri. Come dire la sperimentazione più avanzata e la tradizione più consolidata. Certo, non mancano le proposte irrituali: e penso, in proposito, soprattutto a «La tempesta» secondo Declan Donnellan, considerato da Peter Brook uno dei maggiori specialisti odierni di Shakespeare. Però, in generale, l'impressione è che al nuovo sia stato dato poco spazio. Il teatro di ricerca si affida quasi esclusivamente alla coppia Luigi De Angelis-Chiara Lagani, ovvero a quella compagnia Fanny & Alexander che stavolta si confronta col mito di Lawrence d'Arabia. Non si poteva, mettiamo, inserire nel cartellone (e sarebbe stato in qualche modo obbligatorio, qui a Gomorra) «Mamma mafia» di Latella, che appena qualche settimana fa è andato in scena alla Schauspielhaus di Colonia? Con ciò mi riferisco anche all'altra opzione di fondo che caratterizza, insieme, il cartellone del Festival e quello dello Stabile, sempre diretto da De Fusco: l'occhio di riguardo accordato ai nomi di spicco napoletani. Va benissimo, per carità; ma non ci si fermi ai «soliti noti», che per giunta spopoleranno, nella stagione invernale, in più d'uno dei teatri cittadini. Fuori dai denti, tutto il rispetto per i citati Sastri e Ranieri, tutto il rispetto per Mariano Rigillo e Bruno Garofalo, a patto, comunque, che uguale rispetto venga riservato - tanto per fare due nomi ovvi - a Toni Servillo e a Carlo Cerciello. Nel merito, per di più, salta subito agli occhi l'assenza dei principali autori della stagione cosiddetta «post-eduardiana», dai più anziani (Santanelli e Moscato) ai più giovani (Cappuccio e Borrelli). E in particolare pesa come un macigno l'assenza di Annibale Ruccello, del quale - in costanza di Festival (il 12 settembre) - cadrà il venticinquesimo anniversario della prematura e tragica scomparsa. Per l'occasione, non si poteva (è ancora un esempio) far vedere finalmente la luce della ribalta all'inedito «I gingilli indiscreti», tratto da «I gioielli indiscreti» di Diderot e scritto per la grande Barbara Valmorin, sua custode sempre appassionata ma sempre più sconfortata? D'accordo, i soldi si son ridotti al proverbiale lumicino e questa quarta edizione del Napoli Teatro Festival Italia sconta, di sovrappiù, per l'appunto i vincoli della transizione. Ma proprio per onorare e far fruttare il merito di aver salvato la manifestazione, occorre che chi adesso ne ha la responsabilità non dimentichi - e con ciò ripeto quanto già scrissi presentando la prima edizione del Festival - che il teatro, l'arte sociale per eccellenza, o è ricerca o, puramente e semplicemente, non è. Enrico Fiore(«Il Mattino», 25 giugno 2011)
Un Festival con due anime
Intendiamoci, è importante che il Napoli Teatro Festival Italia sia stato salvato. Ma risulta piuttosto difficile esprimere un giudizio sul programma di questa sua quarta edizione: siamo di fronte a un ibrido, determinato dalla compresenza (e dallo scontrarsi) dell'idea di teatro e delle scelte del direttore precedente, Renato Quaglia, e dell'idea di teatro e delle scelte di quello attuale, Luca De Fusco. Per riassumere con un solo esempio, abbiamo da un lato «Le dragon bleu» di Lepage e dall'altro «L'opera da tre soldi» di Brecht, diretta dallo stesso De Fusco e interpretata da Lina Sastri e Massimo Ranieri. Come dire la sperimentazione più avanzata e la tradizione più consolidata. Certo, non mancano le proposte irrituali: e penso, in proposito, soprattutto a «La tempesta» secondo Declan Donnellan, considerato da Peter Brook uno dei maggiori specialisti odierni di Shakespeare. Però, in generale, l'impressione è che al nuovo sia stato dato poco spazio. Il teatro di ricerca si affida quasi esclusivamente alla coppia Luigi De Angelis-Chiara Lagani, ovvero a quella compagnia Fanny & Alexander che stavolta si confronta col mito di Lawrence d'Arabia. Non si poteva, mettiamo, inserire nel cartellone (e sarebbe stato in qualche modo obbligatorio, qui a Gomorra) «Mamma mafia» di Latella, che appena qualche settimana fa è andato in scena alla Schauspielhaus di Colonia? Con ciò mi riferisco anche all'altra opzione di fondo che caratterizza, insieme, il cartellone del Festival e quello dello Stabile, sempre diretto da De Fusco: l'occhio di riguardo accordato ai nomi di spicco napoletani. Va benissimo, per carità; ma non ci si fermi ai «soliti noti», che per giunta spopoleranno, nella stagione invernale, in più d'uno dei teatri cittadini. Fuori dai denti, tutto il rispetto per i citati Sastri e Ranieri, tutto il rispetto per Mariano Rigillo e Bruno Garofalo, a patto, comunque, che uguale rispetto venga riservato - tanto per fare due nomi ovvi - a Toni Servillo e a Carlo Cerciello. Nel merito, per di più, salta subito agli occhi l'assenza dei principali autori della stagione cosiddetta «post-eduardiana», dai più anziani (Santanelli e Moscato) ai più giovani (Cappuccio e Borrelli). E in particolare pesa come un macigno l'assenza di Annibale Ruccello, del quale - in costanza di Festival (il 12 settembre) - cadrà il venticinquesimo anniversario della prematura e tragica scomparsa. Per l'occasione, non si poteva (è ancora un esempio) far vedere finalmente la luce della ribalta all'inedito «I gingilli indiscreti», tratto da «I gioielli indiscreti» di Diderot e scritto per la grande Barbara Valmorin, sua custode sempre appassionata ma sempre più sconfortata? D'accordo, i soldi si son ridotti al proverbiale lumicino e questa quarta edizione del Napoli Teatro Festival Italia sconta, di sovrappiù, per l'appunto i vincoli della transizione. Ma proprio per onorare e far fruttare il merito di aver salvato la manifestazione, occorre che chi adesso ne ha la responsabilità non dimentichi - e con ciò ripeto quanto già scrissi presentando la prima edizione del Festival - che il teatro, l'arte sociale per eccellenza, o è ricerca o, puramente e semplicemente, non è. Enrico Fiore(«Il Mattino», 25 giugno 2011)