CONTROSCENA

L'utopia lacerata di Lawrence d'Arabia


«La sapienza si è costruita la sua casa: ha intagliato le sue sette colonne». È il versetto del quarto capitolo dei Proverbi da cui Thomas Edward Lawrence, meglio noto come Lawrence d'Arabia, trasse il titolo del suo capolavoro, appunto «I sette pilastri della saggezza». E sembra proprio che a quello stesso versetto si siano ispirati Luigi De Angelis e Chiara Lagani, autori dello spettacolo - «T.E.L.», giusto l'acronimo di Thomas Edward Lawrence - che la compagnia Fanny & Alexander ha presentato sul molo San Vincenzo nell'ambito del Napoli Teatro Festival Italia.   L'indagine tesa a mettere a fuoco senza fideismi o preconcetti (ecco la sapienza) il complesso e controverso personaggio in questione poggia, se non su sette (è tempo di penuria, mi si passi la battuta), almeno su due pilastri, che sono (ed ecco la casa, ovvero la forma dell'allestimento) la dislocazione e la disarticolazione. Due attori, la stessa Lagani e Marco Cavalcoli, dialogavano via radio stando l'una a Torino e l'altro a Napoli, salvo scambiarsi le postazioni ad ogni replica. E Cavalcoli, appunto nei panni di Lawrence, o restava pressoché immobile dietro un tavolo che sprigionava suoni distorti appena lui lo toccava (la leggenda) o si dava alla più anarchica frenesia della testa, delle braccia e delle gambe (la spinta verso l'utopia confusa con gli ordini dall'alto).   Nemmeno una volta veniva pronunciato il nome di Lawrence. Eppure ce l'avevamo davanti con tutte le sue sfaccettature: archeologo e agente segreto, scrittore e teorico della guerriglia, ufficiale britannico e guida della rivolta araba d'inizio Novecento. E non era un caso, dunque, che gli fosse stato attribuito, come costume, un tight fatto di tessuto mimetico. L'«alto» e il «basso», se vogliamo riassumere: gl'ideali coltivati strenuamente da Lawrence e, per contro, le manipolazioni interessate di quelli da parte dei governi o i sotterfugi che lui stesso dovette adottare per difenderli.   Insomma, Fanny & Alexander ha dato l'ennesima prova della sua capacità di spingere il teatro verso territori nuovi e, soprattutto, verso frontiere concettuali estreme. È stato un bene che il Napoli Teatro Festival Italia le abbia affidato il compito di tenere alta la bandiera della sperimentazione. E stava lì a dimostrarlo l'ultima sequenza di «T.E.L.», che accoppiava la tenerezza con la denuncia.   Ci si presentava un Lawrence bambino, interpretato con tranquilla sicurezza da Leone Curti, figlio del produttore Angelo. Giocava con modellini sul tavolo di cui sopra. Ed era l'innocenza, certo, ma somigliava pure al gioco delle tre carte praticato dalle grandi potenze.                                                   Enrico Fiore(«Il Mattino», 6 luglio 2011)