CONTROSCENA

"L'opera da tre soldi" formato all stars


Chi mette in scena «L'opera da tre soldi» può fare solo due cose: o bada allo scopo che si posero Brecht e Weill nell'adottare una forma «gastronomica» per eccellenza, giusto quella dell'opera musicale contemporanea, o bada alla forma in questione adottandola in sé e per sé. E nel primo caso si tratterà, in breve, di praticare la «diffidenza verso il teatro» che Brecht raccomandò proprio in una nota a «L'opera da tre soldi». Si tratterà, cioè, di utilizzare quest'ultima per attaccare - come lo stesso Brecht osservò in margine ad «Ascesa e rovina della città di Mahagonny» - «la società che ha bisogno di simili opere».   Ma Luca De Fusco - regista dell'allestimento de «L'opera da tre soldi» che il Napoli Teatro Festival Italia propone all'Albergo dei Poveri - in tutta evidenza s'è attestato sulla seconda delle scelte citate: e di conseguenza, in contrasto con l'opinione di Brecht, ha assegnato a «L'opera da tre soldi» medesima soltanto lo scopo di «essere rappresentata in teatro», non anche quello di «trasformare il teatro». Io, invece, per l'intera durata dello spettacolo ho avuto davanti agli occhi l'allestimento de «L'opera da tre soldi» realizzato trent'anni fa dal Berliner Ensemble, il teatro di Brecht, per la regia di Manfred Wekwerth, l'allievo prediletto di Brecht e sovrintendente dello stesso Berliner.   Faceva pensare a un supermercato sulle cui mensole s'affollassero - denunciati, appunto, come merce - tutti i generi spettacolari (l'opera lirica, l'operetta, il Kabarett, la «sophisticated comedy» hollywoodiana, il varietà, il circo) chiamati in causa da Brecht, con un occhio a George Bernard Shaw e l'altro a Feydeau, per travestire - sul filo di un'agile inventiva e della leggerezza ironica - il suo apologo-favola sul mondo capitalistico.   Qui abbiamo, al contrario, un allestimento autoreferenziale, a cominciare dal dichiarato impianto «all stars». Sicché Massimo Ranieri (Mackie Messer) fa (bene) Massimo Ranieri, Lina Sastri fa (bene) Lina Sastri nonostante il poco spazio per fare Lina Sastri che le concede il ruolo di Jenny delle Spelonche, l'orchestra del San Carlo fa (bene) l'orchestra del San Carlo, Gaia Aprea (Polly Peachum) fa (bene) quel che può fare Gaia Aprea. E segnalerei anche Ugo Maria Morosi (Geremia Peachum), Angela De Matteo (Lucy Brown) e, soprattutto, Margherita Di Rauso, una Celia Peachum tanto spettrale quanto invadente.   Però, non c'è un'altra nota a «L'opera da tre soldi» in cui Brecht dice che «l'attore non deve soltanto cantare, deve anche mostrare uno che canta»? E in ogni caso, poi, la regia di De Fusco risulta piuttosto contraddittoria: vanno bene, per esempio, i sia pur manieristici accenni a Grosz riscontrabili nel trucco attribuito agli attori, ma che cosa c'entra - durante la festa per le nozze fra Mackie e Polly - l'eclatante abbuffata con gli spaghetti prelevata di peso da «Miseria e nobiltà»? Si vuol forse stabilire (ma a che pro?) un'equivalenza fra la stalla in cui si svolge quella festa e la stamberga che ospita gli scalcagnati fantaccini di Scarpetta?   Allo stesso modo, è simpatico, e cade a proposito, l'accostamento di Celia Peachum e di qualche membro della banda di Mackie ai componenti della famiglia Addams, ma in pari tempo appaiono come un'invenzione soltanto coreografica quelle pin-up da calendario che s'incaricano di comunicare al pubblico le didascalie. Mentre il profluvio di computer e schermi televisivi disposto dallo scenografo Fabrizio Plessi dovrebbe servire a che cosa: a rivelarci (!) che viviamo nell'epoca del digitale e dell'immagine?   Restano nella memoria taluni guizzi da ballerino di Ranieri e certe dolenti sospensioni della Sastri quando esegue la «Canzone del Re Salomone». Ma restiamo sempre, per l'appunto, nella dimensione spettacolare in sé. Alla «prima», affollatissima d'invitati e addetti ai lavori, gli applausi di rito e reiterate rotture delle sedie, con qualche spettatore finito a sedere in terra. Venivano dalla bottega di Peachum, quelle sedie?                                             Enrico Fiore(«Il Mattino», 15 luglio 2011)