CONTROSCENA

Addio a Leo Aloisio


Come si fa ad insegnare per quarant'anni logica matematica alla Federico II senza aver mai preso la laurea? Lui - Pantaleo (per tutti Leo) Aloisio, spentosi qualche giorno fa - lo sapeva e l'ha fatto. Ma per Leo Aloisio non valsero le comuni modalità di comportamento e non valgono, oggi, i comuni criteri di giudizio. Allievo di Renato Caccioppoli, del quale fu poi assistente, ne aveva ereditato, insieme, il genio e la sregolatezza: sicché all'impermeabile bisunto di Caccioppoli fece riscontro il jeans consunto di Aloisio, che per giunta, possedendo solo quello, Leo indossò macchiato di sangue, quando gli attaccò le vene di una gamba la malattia che infine lo ha sconfitto.   Tuttavia, ad imporre Leo Aloisio sulla scena della grande cultura nazionale e internazionale non furono soltanto le sue straordinarie doti di logico e di matematico. Nel 1975 curò tutta la parte teorica del libro di Filiberto Menna «La linea analitica dell'arte moderna. Le figure e le icone», pubblicato da Einaudi. E con quell'intervento, preceduto da una serie di conferenze tenute a Roma con Graziella Lonardi, gettò praticamente le basi per la nascita, in seno al più avanzato teatro sperimentale napoletano, della post-avanguardia in cui brillarono di lì a poco Mario Martone e Toni Servillo.   Il primo segnale di quell'autentica rivoluzione - che mescolava teatro, arti visive, danza e musica - fu l'arrivo a Napoli dagli Stati Uniti (organizzato da Leo insieme con Lucio Amelio, Achille Bonito Oliva e Beppe Bartolucci) di Peter Van Rippen e Simone Forti, esponenti della corrente concettuale, «Fluxus», che annoverava nelle proprie file gente come Robert Rauschenberg, John Cage, Joseph Beuys e Andy Warhol. E non a caso, le performance dei due si svolsero fra lo Spazio Libero di Vittorio Lucariello, l'incubatrice, appunto, di tutte le esperienze teatrali radicalmente innovative, e la Modern Art Agency di Amelio, a sua volta pronuba dell'arte visiva più aperta alle forme dell'avvenire.   Ma infine, c'era l'uomo Leo Aloisio. Apparteneva alla genìa di quelli che di notte non possono dormire, come il Vittorio Viviani figlio dell'incommensurabile Raffaele. E ricordo le innumerevoli notti in cui Leo, Lucariello e io ci ritrovammo a discutere fino all'alba in osterie senza rango ma con vino di-vino. Fu il trionfo di un'intelligenza fraterna, che sposava la voglia di capire con il rifiuto del calcolo.                                                              Enrico Fiore(«Il Mattino», 13 settembre 2011)