CONTROSCENA

"Ferito a morte" e immobile


Lo ripeto. Tra Raffaele La Capria (intendo la sua poetica, la sua scrittura, i suoi temi centrali) e il teatro esiste una distanza incolmabile. A partire dal fatto che il teatro ammette soltanto l'opzione del presente, mentre in La Capria svolgono un ruolo assolutamente decisivo i salti di spazio e di tempo che costituiscono, invece, il cardine fondamentale di ciò che si chiama specifico filmico. Non a caso, del resto, La Capria è stato un grande sceneggiatore, soprattutto per quel Francesco Rosi che sedeva accanto a lui, nel teatro Comunale di Benevento, alla «prima» dell'adattamento di «Ferito a morte» dato nell'ambito della rassegna Città Spettacolo.   Ebbene, parliamo di un allestimento che - fatta salva la lodevole intenzione di celebrare i cinquant'anni di quel romanzo - ribadisce la differenza sostanziale fra il corpo (appunto l'epifania scenica) e l'immagine (ovvero l'apriorismo letterario). E dell'attestarsi dell'autore dalle parti del cinema è prova, in «Ferito a morte», l'episodio (tanto significativo che La Capria non ha potuto fare a meno d'inserirlo nella personale antologia della propria opera intitolata «Chiamiamolo Candido») in cui la spigola «scompare» dietro il cassettone o sotto il letto di Massimo. Un episodio che si traduce in un'autentica dissolvenza incrociata: che poi, a sua volta, traduce lo scarto - in La Capria ineluttabile - fra la realtà e il pensiero, fra la storia e la metafisica. Senza contare che il teatro sconta quasi stabilmente la caduta in quel naturalismo che lo stesso La Capria giudicò, puramente e semplicemente, «repressivo».   Ora, Claudio Di Palma, regista dell'allestimento in questione, mostra di rendersi perfettamente conto del problema, e tenta di risolverlo con vari espedienti: primi fra tutti il flashback (Massimo compare in un edificio abbandonato e fatiscente, con i pilastri di cemento armato inclinati e una valigia di foggia vecchia accanto al letto sfatto) e l'esibizione in primo piano di un monumentale registratore (l'«autosufficienza» e la «separatezza» del testo romanzesco). Ma la materia espressiva partorita da La Capria è troppo densa, onnivora e potente per non avere il sopravvento.   Ne deriva uno spettacolo immobile, che, com'era facile attendersi, consiste in una sterile successione di monologhi. E non rimane, quindi, che l'esercizio di stile messo in campo con la perizia di sempre da Mariano Rigillo. Al suo fianco, fra gli altri, Anna Teresa Rossini e Alfonso Postiglione. Scene di Luigi Ferrigno, costumi di Annalisa Giacci, musiche di Paolo Vivaldi.                                       Enrico Fiore(«Il Mattino», 13 settembre 2011)