CONTROSCENA

Il "Sogno" giovanile di Cecchi


Non c'è che dire. Il «Sogno di una notte di mezza estate» di Shakespeare si traduce per Carlo Cecchi nel suo sogno permanente di mantenersi giovane (e di far tornare giovane, ossia vivo e combattivo, il teatro) attraverso il contatto con i giovani. Così, nel '97, diresse fra le rovine del Garibaldi di Palermo un allestimento del «Sogno» in cui comparivano i già noti ma non ancora stabilmente affermati Gianfelice Imparato, Iaia Forte, Roberto De Francesco, Spiro Scimone e Francesco Sframeli; e due anni fa riallestì la celebre commedia come saggio di diploma degli allievi attori dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica.   Adesso quel saggio, nel frattempo diventato uno spettacolo finito (tanto ch'è stato persino al Festival dei Due Mondi di Spoleto), viene proposto al Bellini. E aggiungo subito che si tratta davvero di un'occasione da non perdere. L'interazione fra il maestro (che, però, continuamente si nega in quanto tale) e i discepoli (che, però, continuamente si negano in quanto tali) produce una felicità inventiva e una spontaneità espressiva ormai assolutamente rare. Il che, peraltro, è anche il risultato di una sorprendente perizia tecnica: giacché, poniamo, questi ragazzi sono bravi anche nell'esecuzione dal vivo delle musiche di un signore che si chiama Nicola Piovani.   Sul piano concettuale, Cecchi invera la dicotomia shakespeariana fra il giorno (la realtà, ovvero la corte di Atene) e la notte (appunto il sogno, ovvero il bosco incantato degli elfi e delle fate, in cui spariscono le identità e ci s'innamora del primo essere veduto al risveglio) nella maniera più radicale possibile: entra ed esce dalla rappresentazione (e dalla sua parte) sul filo di un'ironia impalpabile e tuttavia infallibile. Mentre, sul piano spettacolare in sé, tocca il clou quando - nel ruolo di Cotogno, il «dramaturg» dell'abborracciata compagnia degli artigiani - cita dichiaratamente la scena della prova di «Uomo e galantuomo», in omaggio a quell'Eduardo che a sua volta gli fece da maestro.   Teatro all'antica italiana, insomma: che supplisce con la fantasia alla povertà dei mezzi. Il bosco su cui regnano Oberon e Titania, per esempio, viene evocato srotolando un tappeto intessuto di foglie di plastica. E il resto, si capisce, è affidato all'entusiasmo e all'efficacia degli interpreti, fra i quali andranno segnalati almeno Barbara Ronchi (Elena), Vincenzo Ferrera (Botto e Piramo) e Dario Iubatti (Canna e Tisbe).   Lo ripeto. Non trascurate d'andare al Bellini: da spettatori vi sentirete anche voi giovani.                                                               Enrico Fiore(«Il Mattino», 23 novembre 2011)