CONTROSCENA

Una messa da requiem per Totò


Avevamo sempre creduto, nel sonno indotto da bugiarde ideologie, che fossero stati i vari Lenin, Mao e Che Guevara a farci capire «la miseria, la ribellione, l'umanità e il riscatto della povera gente». Ma ecco che arriva a svegliarci Giancarlo Sepe, autore e regista dello spettacolo, «Compagnia Totò», che lo Stabile di Napoli e Gli Ipocriti presentano al San Ferdinando: nelle sue note rivela che a farci capire quanto sopra è stato, per l'appunto, il Principe De Curtis.   Ma insomma, quando la smetteranno i teatranti di esagerare, inventandosi scombinatissime iperboli nel tentativo di spacciare per straordinario, attuale e innovativo tutto ciò che portano sul palcoscenico? Totò è stato grande, lo sappiamo tutti. E quindi non c'è bisogno di appioppargli medaglie, men che meno quelle fasulle. Piuttosto sarebbe stato necessario, nella circostanza, sforzarsi di evocare, per quanto possibile, lo «spirito», ovvero la «metafisica» surreale che permeava la sua consistenza di attore.   Invece, la compagnia ideata da Sepe non riesce, sotto la guida di un saccente capocomico e di un suo buffonesco allievo/aiutante, che a tributare a Totò lo striminzito omaggio della citazione scolastica di qualcuno dei suoi gesti e di qualcuna delle sue battute, in aggiunta, si capisce, all'altrettanto ovvio ricorrere dei versi di «'A livella». E per il resto c'imbattiamo in un copione che - ingessato nella più ordinaria mistica del teatro - annovera, per intenderci, sortite come le seguenti: «Qui si parla di che cosa sono fatti i sogni», «Il teatro è una discarica, ma chiena 'e luce» e «Il teatro è la vita che si ribella contro la crudeltà della vita».   Il colmo, poi, è quello di uno spettacolo dedicato a Totò che non fa ridere. E prendendo per buona la definizione («una messa laica») che ne ha dato il suo autore e regista, a conti fatti ci tocca parlare - in tutti i sensi - di una messa da requiem. Sicché non ottiene risultati apprezzabili il mestiere dei due protagonisti Francesco Paolantoni (il capocomico) e Giovanni Esposito (l'allievo/aiutante), né più dell'impegno si può riconoscere ai loro compagni di disavventura.   Si cammina stentatamente fra ricalchi evidenti dall'altro spettacolo di Sepe «Napoletango» e incomprensibili sparate, quale una «Bella ciao» formato balera d'accatto. Alla replica del primo dell'anno, ore diciannove, il teatro risultava praticamente vuoto, forse erano più numerosi degli spettatori i ragazzini che lietamente giocavano a pallone davanti all'ingresso.                                                    Enrico Fiore(«Il Mattino», 5 gennaio 2012)