CONTROSCENA

Hrabal, oltre la superbia delle parole


«Io quando incomincio a leggere sto proprio altrove, sto nel testo, io mi meraviglio e devo colpevolmente ammettere di essere davvero stato in un sogno, in un mondo più bello, di essere stato nel cuore stesso della verità. Ogni giorno io sbigottisco dieci volte, come ho potuto allontanarmi così da me stesso».   È il passo-chiave dello spettacolo, presentato al Nuovo da Teatri Uniti, in cui Andrea Renzi racchiude per intero la sua trilogia tratta da «Una solitudine troppo rumorosa» di Hrabal, aggiungendo ai due capitoli precedenti (appunto «Una solitudine troppo rumorosa» e «Hanta e il paradiso delle donne») quello conclusivo intitolato «L'ideale greco del bello». Infatti, il celebre romanzo breve dello scrittore ceco è straordinario proprio perché - come icasticamente dimostra quel passo - si colloca, e agisce, tra le due dimensioni dell'atto d'amore verso la letteratura e del rifiuto della stessa quale pretesa, o illusione, di chiamare e, quindi, possedere il mondo.   In breve, dietro Hrabal c'è tutta la crisi della cultura moderna: riassumibile nella frattura tra le parole e le cose instauratasi, secondo Foucault, con Don Chisciotte e nella concezione, elaborata da Blanchot, dello scrivere come «gioco insensato». E rilevo subito che Renzi traduce un simile quadro teorico con intelligenza e lucidità esemplari: grazie allo scarto determinato fra un realismo puntiglioso (dal cumulo della carta da macero alle bottiglie di birra sparse in giro) e la fuga continua in un ambito fantastico e/o metaforico (dalla parlata italo-slava, assolutamente inventata, che adotta il personaggio protagonista al topolino meccanico che prende il posto dei topi veri).   Appare, inoltre, perfettamente in linea con tutto questo - perché oscillante fra sospensioni poetiche e ironia sottile - l'interpretazione che Renzi dà di Hanta, l'operaio che per venticinque anni ha schiacciato con la pressa libri a quintali e, però, ne ha nascosto i più preziosi nei pacchi di carta da macero via via assemblati. È la metafora estrema dell'ambivalente rapporto con la letteratura di cui sopra, quello di una fede mescolata con la necessità di negare la superbia delle parole.   Sul finale una Giulia Pica insieme dolce e forte e inflessibile impersona il fantasma della zingarella, l'amore giovanile di Hanta, venuto a seppellirlo sotto la carta destinata alla pressa. Davvero uno spettacolo da non perdere.                                                    Enrico Fiore(«Il Mattino», 9 gennaio 2012)