CONTROSCENA

La vita è sogno - 2


A far data dal 7 novembre 1976, sono quasi 36 (trentasei) anni che tesso le lodi di Mariano Rigillo. E puntualmente - le sole due o tre volte che, in un così lungo arco di tempo, mi son permesso di manifestare qualche dissenso circa il suo lavoro - lui ha reagito con una sequela rabbiosa d'insulti, inviati via telefono o sms. In una circostanza mi ha inviato la sequela d'insulti di turno per una settimana intera, un sms al giorno. A parte la maniacalità del mio interlocutore, un simile comportamento costituisce, però, l'ennesima testimonianza del vero dramma che sconta il teatro di oggi. Il teatro di oggi, come vado ripetendo da vari anni, si è ridotto a un piccolo mondo autoreferenziale che s'illude di essere un grande mondo, anzi il mondo tout court. E nel merito, dedico qui di seguito una breve considerazione a ciascuno dei punti capitali della lettera di Rigillo.I CRITICIMa non s'è accorto, Rigillo, che la critica (in particolare quella teatrale) è morta e seppellita già da qualche decennio? E dunque, di quale «ossessiva voglia di protagonismo» va cianciando? E l'attribuisce, questa «ossessiva voglia di protagonismo», proprio a me, che vivo completamente appartato, non faccio parte del consiglio d'amministrazione di teatri (pubblici o privati che siano), non dirigo festival, non scrivo nei programmi di sala e non insegno nelle cosiddette scuole annesse ormai a tutti i teatri? Rigillo ha sbagliato indirizzo. Quell'accusa deve rivolgerla ad altri. E, comunque, lui e i suoi colleghi - data la situazione generale che s'è determinata - possono soltanto ringraziare se ci sono ancora qualche giornale e qualche cireneo come me che continuano ad occuparsi di quel che fanno.IL PUBBLICOMa dove lo vede, Rigillo, tutto questo pubblico che, nonostante i critici, «continua ad amare gli autori, gli attori e i registi»? Il primo dell'anno, alla replica delle diciannove, i ragazzini che giocavano a pallone davanti al San Ferdinando erano più numerosi degli spettatori (tutti parenti degli attori e addetti ai lavori) che in sala assistevano allo spettacolo «Compagnia Totò», pur diretto da un regista di nome come Giancarlo Sepe e interpretato da due beniamini del pubblico napoletano, Francesco Paolantoni e Giovanni Esposito. E la sera di mercoledì scorso, a vedere nella Galleria Toledo lo spettacolo «Italianesi» del più volte Premio Ubu Saverio La Ruina, c'ero soltanto io. E tuttavia ho scritto e pubblicato regolarmente la recensione che mi competeva, senza il minimo accenno a quella sala spaventosamente vuota. È questo il disamore verso il teatro che mi imputa Rigillo?  Mi fermo qui, per il momento. Il format di questo blog non consente più di un certo numero di righe. Il seguito al prossimo post.                                               Enrico Fiore