CONTROSCENA

Un Plauto in esilio fra Roma e Napoli


Non a caso il «Miles gloriosus» vide la luce sul finire della seconda guerra punica: l'intento di Plauto era quello di parodiare Scipione, non ancora Africano ma già inviso, appunto per le sue millanterie, al Senato e al popolo.   La celeberrima trama racconta di come il furbo servo Palestrione aiuti il giovane Pleusicle contro Pirgopolinice, il soldato spaccone che gli ha rapito l'amata cortigiana Filocomasio. Ma Pasolini, che nel '61 tradusse il testo plautino intitolandolo «Il vantone», ne cancellò d'un colpo e i connotati politici e la discendenza dalla Commedia attica nuova: la lingua adottata fu il dialetto romanesco, con una conseguente allusione alle borgate. E tanto, ovviamente, nel quadro della poetica (e, purtroppo, della mistica) del sottoproletariato che negli anni di «Ragazzi di vita» e «Una vita violenta» coltivò lo scrittore di Casarsa.   Ora, perché mai Arturo Cirillo ha scelto, da regista e da protagonista, di presentare al Napoli Teatro Festival Italia, nel parco archeologico di Pausilypon, proprio «Il vantone»? Non sarebbe stata più logica e proficua una traduzione/riscrittura del testo originale in napoletano?   I vantaggi, notevoli, sarebbero stati tre: 1) gli attori impegnati nella circostanza (tutti napoletani, appunto) avrebbero potuto mettere compiutamente a frutto le risorse della nostra grande tradizione nel campo della farsa e dell'avanspettacolo; 2) non ci sarebbe toccato il fastidio di avvertire che siamo di fronte a dei napoletani che imitano la parlata romanesca; 3) si sarebbe potuto volgere in parodia qualcuno dei «miles gloriosus» che a Napoli davvero non mancano.   Qui, invece, gli elementi della recitazione, del trucco e dei costumi - riferiti, fra l'altro, al Kabarett espressionistico, al varietà, al circo e all'opera dei pupi - restano un fatto (per giunta piuttosto confuso) di pura superficie, non riescono a diventare linguaggio e, dunque, a informare di sé la struttura complessiva dello spettacolo.   Nessun dubbio, certo, per quanto riguarda l'impegno e la tecnica in sé degl'interpreti. Ma ci si limita - tanto per intenderci e per offrire solo due esempi - a uno sfottò al saluto romano (ancora?) e alle «faccette» (ancora?) con cui Cirillo disegna Pirgopolinice. Il migliore mi sembra Rosario Giglio nei ruoli di Sceledro, Pleusicle e Milfidippa.                                     Enrico Fiore(«Il Mattino», 21 giugno 2012)