CONTROSCENA

"Hans was Heiri", gli uomini in lavatrice


«La natura degli uomini è simile; sono le loro abitudini che li rendono tanto diversi». E poi: «Ciò che vi è di grande nell'uomo è che egli è un ponte e non un termine. Ciò che si può amare nell'uomo è che egli è un passaggio e un tramonto».   Non so se gli autori-registi ci abbiano pensato, ma credo che l'assunto concettuale e la forma di «Hans was Heiri» - lo spettacolo dato al Mercadante, come anteprima della sezione autunnale del Napoli Teatro Festival Italia, dalla talentosa ditta elvetica Zimmermann & de Perrot - trovino avallo, rispettivamente, nella prima e nella seconda di queste due osservazioni, l'una di Confucio e l'altra di Nietzsche.   Infatti - mentre il titolo riprende un'espressione svizzero-tedesca che significa «alla fine è lo stesso» - la rappresentazione viene gestita da cinque acrobati che, rinchiusi in una scatola rotante evidentemente riferita al cestello della lavatrice, si mescolano fra loro, scambiandosi di continuo i ruoli e, talvolta, anche i vestiti: ciascuno sporco di qualcosa (le abitudini), s'immagina insomma, e comunque si spera, che dopo il «lavaggio» (l'attraversamento del ponte gettato fra gl'individui e il tramonto delle posizioni egocentriche) riscoprano, per l'appunto, l'uguaglianza fra gli uomini.   Di conseguenza, a una colonna sonora che mette sullo stesso piano le distorsioni elettroniche, «Imagine» e il bouzouki corrisponde un «mélange» coreografico che accoglie - sempre nel rifiuto di qualsiasi gerarchia, e tanto per fare solo qualche esempio - la pantomima, il Teatro Nero di Praga, la giocoleria, il teatro dei burattini spagnolo Bululu, l'illusionismo, la clownerie, i tableaux vivants... E bravissimi, ci mancherebbe, sono gl'interpreti: danno fondo a una comicità strampalata e surreale fatta di tutti i nostri tic e di tutte le nostre monomanie.   Li cito, dunque, uno per uno: Tarek Halaby, Dimitri Jourde, Gaël Santisteva, Mélissa Von Vépy, Methinee Wongtrakoon e gli stessi Martin Zimmermann e Dimitri de Perrot. E allora, ecco una dimostrazione (e dimostrazioni del genere sono ormai sempre più rare) di come il teatro possa divertire, e molto, senza negarsi alla riflessione: quei buffi fantaccini - sballottati da una parte all'altra, e spesso costretti a testa in giù o sospesi in un equilibrio precario sulla sommità della scatola rotante - traducono la quotidianità slabbrata che oggi ci tocca.   Sì, in «Hans was Heiri» si sente l'eco di Hofmannsthal: «Bisogna nascondere la profondità. Dove? Alla superficie».                                               Enrico Fiore(«Il Mattino», 9 settembre 2012)