CONTROSCENA

Nekrosius, un "Paradiso" tutto umano


«Un acme di divino estetismo». Così Salvador Dalì definì il Teatro Olimpico di Vicenza. E dunque, Eimuntas Nekrosius non avrebbe potuto ambientare il suo allestimento ispirato al «Paradiso» dantesco meglio che tra le magie prospettiche del Palladio.   Penso, in proposito, all'acuta osservazione di Auerbach: «Per Dante la bellezza poetica coincide con la contemplazione della verità divina». Infatti, Dante riuscì a dire l'indicibile (cioè la perfezione assoluta di Dio) determinando l'identificarsi di quella divina con la perfezione assoluta dei suoi versi, per cui davvero la forma «divenne» il contenuto. E proprio questo sembra aver intuito Nekrosius nell'affermare che il «Paradiso» è «un riflesso della perfezione».   D'altra parte, vale la non meno acuta osservazione di Charles Singleton riguardo alla «Commedia» in generale: «In nessun punto dell'opera queste cose ultraterrene vengono presentate come visione o come sogno». E venendo in concreto all'allestimento di Nekrosius, non si può non tener conto della decisiva constatazione di Umberto Bosco che da quella di Singleton direttamente discende: nella terza e conclusiva Cantica della «Commedia» Dante «rapporta il paradisiaco alla misura dell'uomo».   Ecco, allora, che lo spettacolo si apre con una canzone del folclore lituano: «O colomba cerulea, / colombella tu grigia, / vola verso quel paese / dove mi aspetta la ragazza». Par di risentire Cavalcanti. E subito dopo tutti a scambiarsi carezze sul capo, il segno, insieme, dell'approdo alla salvezza dell'anima e di una fraternità generata, per l'appunto, dall'afflato umano.   Come se non bastasse, il passaggio dai «luoghi» della perdizione (l'Inferno) e dell'espiazione (il Purgatorio) a quello della salvazione (giusto il Paradiso) viene reso da Nekrosius in maniera assolutamente icastica, nei termini di un autentico trasloco. Fra tappeti arrotolati sparsi qua e là, ci si dedica per un lungo tratto a impacchettare tutti gli oggetti/simbolo della terrestrità e della finitezza: dai libri alle collane, dagli specchi agli orologi e ai bastoni dello storpio... fino a che, addirittura, viene impacchettato anche qualcuno degli attori.   Naturalmente, c'è pure una sana ironia demitizzante in questo rapportare, secondo la citata constatazione di Bosco, il paradisiaco alla misura dell'uomo: tanto che Dante dice il celebre e altissimo incipit della Cantica («La gloria di colui che tutto move»...) stando in una posizione tra l'acrobazia circense e lo yoga, in equilibrio sulla testa e con le gambe divaricate.   Insomma, si oscilla fra il sentimento più aereo e la carnalità più impudente, e in breve fra l'ascesi e il sesso: giacché, per fare un altro esempio, alla tenerezza sottolineata dal «Concerto in do minore» di Alessandro Marcello e dall'esecuzione dal vivo di un brano di «Wish you were here» dei Pink Floyd corrisponde la sequenza al rallentatore in cui Dante, muovendosi lateralmente a piccoli passi, va ad infilare la spada nel fodero retto a due mani da Beatrice.   Infine, impegnata e precisa come sempre è la prova fornita dagli attori della Meno Fortas, l'impareggiabile compagnia di Nekrosius: a cominciare, s'intende, da Rolandas Kazlas e Ieva Triskauskaite nei ruoli, appunto, di Dante e Beatrice. Ma, nel complesso, si conferma l'impressione di un allestimento laboratoriale che già suscitò a Brindisi, nel maggio scorso, lo spettacolo dedicato dal maestro lituano all'«Inferno» e al «Purgatorio».   Piuttosto, il merito di Nekrosius è quello di aver inverato l'ammonimento del grande, caro e indimenticabile Vittorio Russo, che di quella bellezza perenne c'insegnò cogliere il brivido: «Nessuno, credo, oggi può osare sperare di ritrovare Dante solo nei silenzi chiostrali o nella penombra delle biblioteche. Rischierebbe di incontrarlo in qualche stilema di Franco Fortini o nelle ultime pagine di Pier Paolo Pasolini, già intrise di disperazione e di sangue, o nell'attesa confusa di un giovane barbuto, o ancora, come pure è avvenuto, in alcune scritte rosse sui muri delle università e delle strade, e non essere più in grado di riconoscerlo».                                                 Enrico Fiore(«Il Mattino», 24 settembre 2012)